Le poltrone intoccabili della specialità
TRIESTE. Solo tre Regioni hanno più consiglieri del Friuli Venezia Giulia in rapporto agli abitanti. Due sono “speciali”, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, la terza è il piccolo Molise. Le altre stanno tutte dietro. Fino agli ultimi posti di territori estesi e popolati come Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Campania, Lazio e Lombardia.
E questo nonostante il Friuli Venezia Giulia, ai tempi dell’offensiva anticasta, abbia ridotto il numero degli scranni: in era Tondo i consiglieri sono scesi da 60 a 49 (-18,3%), con il governo Serracchiani si è invece intervenuti sulle paghe (da 10.291 a 6.300 euro lordi, con recupero però sui rimborsi, saliti fino a 3.500 euro senza obbligo di rendiconto). Il Friuli Venezia Giulia, oggi, conta di conseguenza un consigliere regionale ogni 25mila abitanti, ma il Veneto ne ha uno ogni 82mila, Piemonte ed Emilia Romagna uno ogni 88mila, il Lazio uno ogni 117mila e la Lombardia uno ogni 124mila. Differenze destinate ad aumentare dato che al prossimo rinnovo delle assemblee legislative il Veneto scenderà da 60 a 50, la Campania da 61 a 50, la Toscana da 55 a 40, la Puglia da 70 a 50, la Sicilia da 90 a 70, la Liguria da 40 a 30, le Marche da 43 a 30, l’Umbria da 31 a 20.
Il tema di un ritocco all’ingiù per le Regioni autonome torna di attualità nel momento in cui a Roma è in discussione la riforma costituzione. Ma la questione non è pervenuta. Non la sollecitano i partiti di maggioranza, non se ne occupano le opposizioni, nemmeno il Movimento 5 Stelle. Cosicché le “speciali” continueranno a essere esentate dall’applicare la riduzione cui sono state costrette le ordinarie. Del resto ha dato loro ragione una sentenza della Corte costituzionale, la 198 del 2012. Alla Consulta si erano appellate anche le ordinarie, che si sono viste però obbligate a seguire il dettato del decreto legge 138/2011 che imponeva un secco contenimento del numero dei consiglieri regionali: da un minimo di 20 (è il caso del Molise) per le Regioni fino a un milione di residenti a un massimo di 80 per quelle oltre gli 8 milioni, passando per i 30 fino a due milioni di abitanti, i 40 fino a quattro milioni, i 50 fino a sei milioni di abitanti, i 70 fino a otto milioni.
Paletti per tutti tranne che per le autonomie speciali. Secondo la Corte c’è un solo modo per costringerle a contenere il tetto degli eletti: intervenire via legge costituzionale. Dal punto di vista pratico è un’evidente disparità. Alla Valle d’Aosta servono 35 consiglieri, solo 5 in meno della Liguria e, in prospettiva, della Toscana. Il Trentino Alto Adige ne conta 70, più del doppio di quanti ne dovrebbe avere secondo il decreto 138. La Sicilia, che ha quasi la metà della popolazione della Lombardia, continua a far lavorare 90 consiglieri.
E il Friuli Venezia Giulia, sempre in relazione al “dimagrimento” sollecitato nel 2011, ne mantiene 19 in più: 49 anziché 30. Una questione anche di costi. Si sfruttasse la riforma costituzionale per applicare a tutte le Regioni quel decreto legge, la pattuglia degli eletti delle “speciali” passerebbe da quota 304 a 160, 144 poltrone in meno. Il risparmio? Un ventina di milioni di euro all’anno, 100 milioni in una legislatura. I 19 in meno in Fvg? La riduzione consegnerebbe alle casse pubbliche 3 milioni all’anno di sola indennità. E invece tutto tace. Eppure nel gennaio 2014 Renzi chiedeva ai senatori del Pd di presentare il ddl costituzionale di riforma di Palazzo Madama e aggiungeva: «Poi abbassamento numeri e compensi dei consiglieri regionali».
E anche i saggi nominati dalla presidenza della Repubblica proprio per la riforma della Costituzione scrivevano: «Ferma la distinzione tra autonomie ordinarie e speciali, si presenta tuttavia necessario favorire un processo di riduzione delle diversità ingiustificate definendo alcuni criteri generali, ad esempio nel numero dei componenti degli organi e nelle relative indennità, che vincolino tutte le Regioni, anche ad autonomia differenziata».
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