Le nostre api hanno patito la fredda primavera. E la produzione del miele crolla

La situazione climatica avversa ha impedito alle api di uscire dagli alveari e, anche quando hanno potuto farlo, trovare i fiori ha spesso rappresentato un’impresa. «Sotto i 9°C non volano - spiega Pietro Lombardo, vicepresidente del Consorzio apicoltori di Gorizia -. La situazione è molto grave. Le colonie non hanno avuto sufficienti scorte per fare crescere la famiglia. Da noi, nel periodo primaverile, la produzione maggiore è quella dell’acacia. Rappresenta circa il 40% della produzione annua totale. L’abbiamo persa e nel Carso abbiamo perso anche quella della marasca e non ci saranno altre fioriture importanti come quella dell’acacia».
Il trend era stato negativo già l’anno scorso. Per non perdere le famiglie e farle sopravvivere in attesa che la situazione climatica tornasse favorevole, molti hanno dovuto nutrire le api artificialmente, aiutandole con canditi o soluzioni zuccherine. «Nutrire artificialmente le api ha dei costi che si aggiungono ai mancati guadagni», nota Lombardo ricordando che nell’Isontino sono circa 200 i produttori iscritti al registro degli apicoltori. In prevalenza si tratta di hobbisti che raccolgono il miele per il consumo familiare o per regalarlo agli amici, ma c’è una parte che lo commercializza. Circa un terzo degli iscritti ha partita Iva, ma se anche qui, l’attività apistica non è quella prevalente, comunque spesso contribuisce a integrare un reddito legato ad attività agricole. «Da un punto di vista professionale non c’è un numero alto di imprenditori, ma c’è comunque un cospicuo numero di operatori semiprofessionisti. Il mercato c’è, ma probabilmente quest’anno faremo poco consumo di miele italiano, perché il problema è generalizzato, non è soltanto nostro. Già in situazioni normali - prosegue Lombardo - la produzione nazionale riesce a coprire solo il 40% del fabbisogno italiano, ma in un anno come questo non sappiamo ancora se riusciremo ad attestarci complessivamente al 30%. Per il momento non ci sono stime ufficiali, ma in Friuli Venezia Giulia il calo della produzione dovrebbe essere più consistente. Comunque sia la nostra associazione nazionale, sia quelle locali stanno incontrando le autorità politiche per trovare delle soluzioni anche economiche».
Tra gli altri effetti, il maltempo ha ritardato il periodo della sciamatura. Tra i primi di aprile e la fine di maggio (o al massimo l’inizio di giugno) le api sciamano per formare nuove famiglie. Mandano via la vecchia regina con mezza comunità e poi con la nuova regina, che depone tra le 2 mila e le 2.500 uova al giorno, la comunità si ripopola. Gli apicoltori in qualche modo controllano gli sciami per poi recuperare la divisione. Le uova si schiudono tre giorni dopo la deposizione e, a seconda dell’alimentazione, le larve diventeranno regina, ape operaia o fuco. In questo modo la colonia riesce a programmare la sopravvivenza della comunità e della specie. Il freddo ha ritardato dunque la sciamatura e in questi giorni le segnalazioni ai vigili del fuoco, anziché diminuire, continuano ad essere numerose. «Di solito la vecchia regina non va molto lontano, si appoggia nel primo posto che trova, seguita da 30/40 mila api - spiega Lombardo -. I cittadini chiamano i vigili del fuoco che, a loro volta chiamano noi per il recupero. Ci sono ancora dei fenomeni di sciamatura e ce ne saranno ancora per un paio di settimane almeno perché non ce ne sono stati fino al 15/20 aprile».
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