Le lettere d’amore nelle camicie da lavare del tappezziere Daniele finito ad Auschwitz
TRIESTE Anna ha tenuto tutte le parole che scriveva suo marito. Perché è lì che lui ha continuato a vivere, in quelle parole che dicevano poche cose e raccontavano tutto. Ogni tanto, alla sera, nella sua casa di Tel Aviv, ancora adesso, tanti anni dopo, riprendeva le lettere che Daniele le aveva fatto arrivare di nascosto dalla prigione di Trieste prima di essere mandato ad Auschwitz, una ogni giorno per 250 giorni, e le rileggeva da sola, perché il tempo era passato e i figli erano diventati grandi e s’erano sposati, e la vita era diventata un’altra cosa, e anche il dolore. Ma in quegli 8 mesi terribili, nel 1944, lei le leggeva ad alta voce ai suoi figli, che avevano 8 e 9 anni, e non piangeva mai. «Noi le ascoltavamo con un misto di gioia e malinconia», ha ricordato Vittorio che oggi ne ha 85 di anni.
Sembra impossibile. Ma l’amore non è mai impossibile. Loro aspettavano con ansia che arrivassero le lettere che il papà riusciva a nascondere nelle camicie da lavare e si mettevano attorno alla mamma, come in un rito della cena quando si spezza il pane per tutti: lei le illuminava alla flebile scintilla di un fiammifero, perché nella stanza dove li teneva suo cognato, il muratore cattolico che li stava salvando, non c’era una finestra, e non c’era l’acqua e nemmeno la luce, e cominciava a scandire le parole. Tutte le parole. Erano racconti di dolore e dichiarazioni d’amore. «Io vi amo veramente tanto. E prego Dio che torneremo a vivere insieme». Il tappezziere Daniele Israel, un bravuomo di 33 anni che aveva il suo bel negozio ben avviato a Trieste che dava lavoro a un mucchio di cattolici, non riusciva a credere a quello che stava capitando. Possibile che volessero davvero ucciderlo solo perché era ebreo?
Anche se lo torturavano per sapere dove si nascondevano i suoi figli, lui continuava a essere convinto che prima o poi l’avrebbero liberato, magari dopo averlo spogliato di tutto, e quando portavano altri ebrei in prigione e dopo pochi giorni li mandavano via scriveva alla moglie che era ingiusto che lui continuassero a tenerlo lì. Solo alla fine aveva capito che invece li mandavano a morire. E che il giorno in cui lo presero e lo fecero salire su quel treno, il 2 settembre 1944, anche per lui si stavano aprendo i cancelli della morte.
«Papà aveva paura solo per noi», hanno spiegato i figli Vittorio e Dario, che la Bbc ha rintracciato a Tel Aviv, recuperando le 250 lettere riscritte con cura certosina da Elisabeth Zetland, e conservate oggi al Yad Vashem, the World Holocaust Remembrance Center di Gerusalemme. «Non temeva per sé. Si raccomandava alla mamma che stesse molto attenta. Che con i nazisti lui teneva duro». Daniele Israel aveva un volto così normale e i capelli neri tirati indietro con la brillantina, come si faceva allora. I suoi figli, Dario e Vittorio, invece avevano quello sguardo spalancato sul mondo che hanno tutti bambini che non sanno ancora che grande sorpresa è la vita, quanto amore nasconda, e quanto dolore, anche. Mamma Anna era l’unica che sorrideva nelle foto che la Bbc ha allegato alle lettere. Danno bene l’idea della serenità travolta dalla follia. Daniele fu arrestato il 30 dicembre del ‘43 nella sua tappezzeria assieme al suocero. Anna e i figli furono nascosti dal cognato carpentiere che raccontò ai vicini che erano sfollati perché gli americani gli avevano bombardato la casa.
Appena in carcere, Daniel trovò il sist+ema per far arrivare le sue lettere alla moglie. «Era un abile sarto, un maestro nello scucire, ricucire e rifinire», ha raccontato Daro. Nascose le lettere piegandole nel colletto e nei polsini delle camicie da lavare, che due suoi ex dipendenti non ebrei, addetti alla lavanderia del carcere, raccoglievano dalla biancheria e con grande rischio personale facevano avere a sua moglie. «Noi stavamo seduti attorno alla mamma e ascoltavamo le parole di papà». Poi la mamma scriveva le risposte che i due ex dipendenti, ottimi sarti anche loro, ricucivano perfettamente e portavano al marito in carcere. Che però era costretto a distruggerle subito. Le uniche parole che si sono conservate sono le sue. «Scriveva molto di noi perché voleva aiutarci ad affrontare questo momento. Era molto ottimista. Pensava che le cose si sarebbero aggiustate. Però avvertiva anche mia madre che c’erano molte spie e che lei non doveva fidarsi di nessuno». Queste lettere contengono una mole enorme di informazioni sulla vita della prigione. Racconta delle persone che venivano arrestate e buttate nelle celle. Delle torture. E anche della sua vita dietro le sbarre: un letto di paglia, il cibo scarso, le sofferenze comuni. Siccome lui era un ottimo tappezziere, capitava che i nazisti lo obbligassero a fare dei lavori nelle loro case. Una volta, raccontò, avrebbe potuto anche provare a scappare da una finestra del gabinetto. Ma gli mancarono le forze, era esausto. E alla fine tornò in cella con le guardie.
C’era un ricordo che continuava ad ossessionarlo. Era successo che un giorno i suoi due figli erano tornati a casa in lacrime perché i vicini li avevano aggrediti a botte e insulti, «maiali ebrei». Ma lui anziché rincuorarli li aveva sgridati perché non avevano reagito: «Non potete lasciarvi insultare così». Adesso però questo era diventato il suo più grande rimorso e continuava a scrivere per chiedere scusa, che lui non aveva capito quello che stava succedendo. Una volta riuscì a mandare chissà come ad Anna 200 lire assieme alle lettere: «perfavore fai un regalo a Dario e Vittorio per il loro compleanno». Era il 20 agosto. Sono gli ultimi giorni. Dopo un grande bombardamento americano su Trieste, Dario si smarrì per 24 ore. Quando tornò, apparve chiaro che aveva subito delle lesioni alla memoria e non ricordava neppure che il padre era in prigione. Quando recupera i ricordi, Daniele si mette d’accordo con la moglie perché vengano a vederlo nella sua ora d’aria mentre cammina nel cortile. Lei sale con Dario all’ultimo piano della casa di fronte, come aveva concordato col marito. Sono pochi minuti. Lui alza gli occhi e si commuove. Lo scrive nella lettera e chiede ad Anna di portare Vittorio il giorno dopo. Lei lo fece. «Mio padre ci guardò e si strinse le braccia al petto, come se ci abbracciasse».
E’ l’ultima immagine che hanno di lui. Il 2 settembre del ‘44, quando lo misero sul treno che lo portava ad Auschwitz, lui aveva già capito tutto e aveva perso ormai le speranze che le cose prima o poi si sarebbero aggiustate. Chiedeva a loro di vivere perché così avrebbe vissuto anche lui. Continuò a scrivere miracolosamente anche su quel treno. Conobbe un ferroviere e gli chiese se poteva fargli questo regalo, di portare la lettera a sua moglie. Un giorno, tanto tempo dopo, si presentò un signore chiedendo se lei fosse Anna Israel e le consegnò le ultime parole del tappezziere Daniele Israel, che aveva i capelli neri tirati indietro con la brillantina e teneva stretto i suoi bambini che guardavano il mondo con gli occhi spaventati. I suoi suoceri, che erano con lui su quel treno, morirono ad Auschwitz. Ma nessuno ha mai saputo cosa capitò a Daniele. Alla fine della guerra seppero solo che lui era stato visto vivo due settimane prima che il campo fosse liberato. Anna ha continuato a cercarlo per anni, sperando che fosse andato in Russia o che avesse perso la memoria. Alla fine le hanno detto che doveva essere morto in una di quelle terribili marce forzate che i tedeschi organizzavano per spostare i prigionieri. Nel ‘49 ha deciso di andare in Israele con i figli. Lui è rimasto in quelle lettere. Manca solo quella sul treno, che Daniele il tappezziere aveva scritto mentre arrivava ad Auschwitz. Ma lei la ricorda a memoria: «Fin da lontano puoi vedere il fumo. C’è così tanto fumo qui. Dev’essere l’inferno». —
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