Le gru di Trieste, quegli antichi testimoni del Porto asburgico

Bracci meccanici e montacarichi mossi dalla forza dell’acqua: insieme alla Centrale idrodinamica fecero la rivoluzione dei traffici quando le navi furono spostate dalla Sacchetta

Zeno Saracino
Le ultime gru: il fotoservizio è di Andrea Lasorte
Le ultime gru: il fotoservizio è di Andrea Lasorte

“Le gru di Maria Teresa”. Era un affettuoso anacronismo la definizione che ricorreva, tra i portuali, riferendosi alle gru idrauliche montate su rotaie presenti sulle banchine dell’odierno Porto Vecchio di Trieste. Erano infatti gru risalenti agli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento quando il Neuer Hafen, costruito dal 1865 al 1890, era entrato in funzione quale nuovo distretto portuale della città, completo di tutti gli elementi caratteristici di un porto moderno: un affaccio sul mare protetto dalle dighe foranee, rotaie per il trasporto interno e montacarichi per movimentazione e magazzinaggio delle merci.

Le varie tipologie di supporto

In quest’ambito le gru avevano raggiunto a fine Ottocento elevati livelli di efficienza, differenziandosi a seconda della tipologia di supporto. Vi erano infatti gru galleggianti, montate su scafi o appositi pontoni; gru fisse sui moli con diverse forme e fonti energetiche (manuali, vapore, idrauliche) e infine gru mobili montate su binari.

Queste ultime erano gru idrauliche alimentate con acqua a 54 atmosfere trasmessa dalla Centrale idrodinamica tramite un capillare sistema sotterraneo di tubature lungo sei chilometri e mezzo, che congiungeva l’intero apparato di montacarichi e gru. La pressione era mantenuta costante tramite i tre accumulatori idraulici mimetizzati nella torre all’ingresso del varco portuale di largo Santos e nelle due torri della centrale stessa.

Il grande apparato meccanico del Porto Vecchio

Considerate tra le gru più potenti dell’epoca, le gru idrauliche del Porto Vecchio erano però solo una minima componente di un grande apparato meccanico in movimento nell’intero porto, impegnato nella movimentazione delle merci sfuse. Michele Pozzetto, nel 1934, era ancora familiare con questo concetto e descriveva «le 87 gru idrauliche che si ergono nell’aria come grandi proboscidi, erette sulle mobili impalcature di ferro, che si spostano su rotaie». Ma non solo, perché «dal quarto piano le gru calano il loro cavo d’acciaio fino sulla strada» e «tutti questi magazzini hanno gru esterne ed elevatori interni».

Ciò che rimane

Oggigiorno di quest’immagine di un porto interconnesso e in movimento – afferente, secondo la studiosa Antonella Caroli, al modello tedesco dei Lagerhäuser – rimane poco. Tuttavia, lungo le banchine, sono ancora presenti quattro gru idrauliche: l’esile struttura a stelo, ricoperta di ruggine, si arcua dalle rotaie del “perron”, lo zoccolo del magazzino ottocentesco, fino ai binari affacciati al mare. Una postazione per il gruista sormonta una struttura di ferro che protende infine il braccio puntato verso l’entroterra della gru.

Se il discorso della conservazione del Porto Vecchio ha toccato magazzini ed edifici ausiliari, le gru non sono di frequente oggetto di analisi: eppure sono le ultime sopravvivenze portuali, l’incarnazione del perché dell’intero apparato idraulico del porto. Guardando ai rivali di Trieste, Genova ha restaurato la propria gru a bassa pressione Armstrong del 1865 e Venezia conserva un’analoga gru idraulica da 160 tonnellate Armstrong del 1883.

Le tracce sui magazzini

È inoltre sufficiente passeggiare per i magazzini del porto per scorgere – sempre più rari – i verricelli e le gru fisse sui piani superiori del Porto: elementi certo minori, ma senza cui diventa difficile spiegare come effettivamente il porto funzionasse al picco della sua attività logistica.

Rientrano nello stesso ambito di manufatti di archeologia industriale gli scalandroni oggigiorno accatastati nella sezione centrale del Porto Vecchio, visibili guardando alla parte anteriore, oggigiorno recintata, del Magazzino 26.

Si tratta di un imponente coacervo di passerelle di metallo rugginoso, utilizzate negli anni Trenta onde garantire il transito ai passeggeri e alle merci dalle navi in arrivo presso il molo dei Bersaglieri, sede della Stazione Marittima.

Non sono pertanto originari del Porto Vecchio, ma vi vennero traslocati nel 2012, quando la Stazione iniziò a essere riutilizzata per le navi bianche. Passerelle mobili imponenti, coi verricelli gialli alla sommità, gli scalandroni sono di solito assenti dai piani di recupero dell’area. L’associazione Italia Nostra sezione di Trieste, col Masterplan del 2018, ne proponeva il recupero quali beni monumentali.

Le gru moderne

Non sono invece storiche, ma testimoniano una diversa direzione per il Porto Vecchio, verso possibili attività produttive che oggigiorno appaiono lontane, le quattro gru da banchina visibili dalle Rive di Trieste. Alte, sottili e azzurre, sono gru da portata massima di 35 tonnellate, a disposizione di Adriaterminal. Vennero installate, con spesa di 30 miliardi di lire nel 1998.

Il tentativo di vendita

In tempi recenti l’Authority ha provato a venderle, ma senza successo: dovrebbe essere il primo passo di un iter volto a spostare l’ultima area portuale del Punto Franco Vecchio.

Oggigiorno Adriaterminal rimane infatti l’unico approdo triestino dove è possibile fare movimentazione e magazzinaggio di merci sfuse: un settore trascurato dall’egemonia dei container e ro-ro del Porto Nuovo, dove altre gru moderne di colore giallo si fanno ben vedere, ma nel quale anche Capodistria ha saputo invece ricavare un proprio spazio. Poste all’asta a 136 mila euro nel 2021, le gru della marca Fantuzzi-Reggiane comprendono anche una benna e una pinza per tronchi.

Le tracce sulle Rive

Rimanendo invece nell’ambito delle gru storiche poco è rimasto dei verricelli e gru che un tempo consentivano, anche nel vecchio porto di due secoli fa, la movimentazione delle merci lungo le Rive. C’è un’eccezione ed è una piccola gru, completa di catena avvolta, presente a una delle estremità del molo Fratelli Bandiera. Nonostante la ruggine, è ancora ben fissa al molo e reca la scritta “John Seaward & Co. 1857”. Seaward fu un importante ingegnere vittoriano che giocò un ruolo importante nell’ingegneria navale britannica: progettò il primo London Bridge, inventò gru, motori marini e ponti estensibili. In questo caso la gru probabilmente era di fattura britannica, realizzata dall’omonima ditta nella seconda metà dell’Ottocento.

La gru a martello del San Marco

Tra le gru oggigiorno scomparse, spostandosi verso la zona industriale, merita una menzione la gru a martello posizionata un tempo presso il Cantiere San Marco: definita “mancina” e costruita dai Cantieri riuniti dell’Adriatico, era di solito presente presso l’Officina tubisti. La forma peculiare creava uno strano contrasto con l’Ursus, col quale era spesso accoppiata per diversi lavori. Demolita da tempo, la gru mancina è una presenza costante delle foto (e ricordi) dell’area. —

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