Laura Solari, diva triestina della Hollywood autarchica

Tanti gli omaggi riservati all’attrice che il 5 gennaio avrebbe compiuto cent’anni Con “La donna di garbo”, nel ’54, inaugurò il Teatro Stabile regionale

Ricorre il 5 gennaio il centenario della nascita della triestina Laura Solari (nome d’arte di Laura Camaur), una delle più importanti e versatili (oltre che belle) attrici del cinema dei “telefoni bianchi” (ma anche protagonista nel dopoguerra a teatro e in tv con la primissima Rai).

Trieste le dedicherà diversi omaggi lungo il 2013. Si comincia il 14 gennaio a Palazzo Gopcevich per i “Lunedì dello Schmidl”, con l’incontro a cura di Roberto Curci “Laura Solari. Una donna di garbo”, dal titolo della commedia goldoniana che lei interpretò nel ’54 al debutto del Teatro stabile regionale. Organizzano la Sede regionale Rai e il Trieste Film Festival, che nella sua 24° edizione (17-23 gennaio) proietterà “Terra di nessuno” (’39) di Mario Baffico, primo importante titolo della Solari. Ma anche Maremetraggio in luglio e I Mille Occhi in settembre proietteranno un suo film, prima iniziativa in comune dell’Associazione Casa del Cinema di Trieste.

“Laura Solari è una bella figliola e sta diventando a poco a poco anche un’ottima attrice”, scrisse il burbero principe dei cinecritici di allora, Pietro Bianchi, della Solari al culmine della carriera. Il film era “La statua vivente” (’43), dal dramma “La statua di carne” di Teobaldo Cicconi. La dirigeva Camillo Mastrocinque, con cui aveva debuttato nel giallo-rosa “L’orologio a cucù” (con Vittorio De Sica) nel ’38, dopo il secondo posto del ’37 in un concorso dell’Era Film. Al critico Francesco Savio, che la intervistò negli anni ’70, disse che il controverso “La statua vivente” fu il film che le diede la maggiore popolarità. Una pellicola osteggiata, che sembrava rifarsi al modello realistico del cinema francese dell’epoca. “La stessa operazione che fece Visconti con ‘Ossessione’”, scrisse Savio.

Ne “La statua vivente”, girato in parte a Trieste (in Viale XX settembre), «come la Kim Novak de “La donna che visse due volte” anche la Solari fa una doppia parte», ha osservato Sergio Crechici in quello che rimane il contributo più completo sull’attrice. Come in Hitchcock, la vicenda allude al mito di Pigmalione, non estraneo al rapporto della Solari col prediletto regista Mastrocinque. Lei qui è la moglie del marinaio Fosco Giachetti, e muore il giorno delle nozze. Ma poi è anche la somigliantissima prostituta che il marinaio incontra e che, pensando di fargli cosa gradita, si fa trovare vestita come la defunta consorte.

Per la Solari un ruolo di forte drammaticità intriso di sensualità (il film fu vietato ai minori), in linea con altre protagoniste degli anni di guerra (pensiamo alla Calamai di “Ossessione”, alla Duranti di “Carmela”), ma a cui lei non era nuova. Nel ’39, come secondo film subito dopo “L’orologio a cucù”, si era cimentata in un singolare western contadino ambientato nella Sicilia di fine ‘800, “Terra di nessuno” di Baffico, paradossale film fascista dalla parte dei braccianti agricoli. Qui – anticipando stavolta la mondina Silvana Mangano di “Riso amaro” – interpreta una contadina che ama, si sposa, prolifica, invecchia, in una parte di insolita estensione temporale. E indossa sempre pochi stracci che non nascondono l’esuberanza del corpo, come accade anche nel successivo ruolo drammatico “Ridi, pagliaccio!” (’41) di Mastrocinque, dov’è un’ex galeotta che finisce nel circo di periferia di Fosco Giachetti.

Sono tutte parti di proletaria, ma anche se importanti rimaranno le sole per lei. Al melodramma popolare la Solari preferiva infatti la commedia sofisticata. Graziosa, raffinata, con due occhi intensi e vivaci, di colta formazione cosmopolita (figlia di uno scultore, scuole medie a Vienna, Accademia di Belle Arti a Brera, vocazione teatrale precoce), la Solari era perfetta per quei ruoli brillanti hollywoodiani che la Cinecittà autarchica stava cercando di sostituire (come altre stelle di frontiera, l’istriana Alida Valli, la dalmata Oretta Fiume). Era a suo agio nel giallo-rosa, tipo “Validità giorni dieci” (’39) sempre di Mastrocinque, girato a Venezia, in cui lei e l’udinese Antonio Centa imitano la celebre coppia Usa Nick & Nora. Qui la Solari è una presunta ladra che poi si scopre essere un’assicuratrice in cerca di una collana rubata, e Centa l’aiuta in questa indagine.

Come si vede, su di lei piovevano i ruoli con due anime, come la telefonista scambiata per diva da un produttore nello zavattiniano “Bionda sottochiave” (’39), la cameriera che si scambia con la padrona in “Una moglie in pericolo” (’39), la doppia fidanzata (sia del padre, sia del figlio) in “Don Pasquale” (’40), suo grande successo. Come infine la fidanzata che diventa cameriera in “La donna di garbo”, la commedia di Goldoni che la Solari, insieme a Luigi Almirante, portò anche sullo schermo (nel ’54), una volta inaugurato a Trieste con la compagnia stabile l’ex cinema Auditorium, ribattezzato Teatro nuovo. E dopo tanto importante teatro nel dopoguerra (con Nazzari, Gassman, Calindri) e dopo aver chiuso con il cinema in “Banditi a Milano” (’68) di Lizzani, la Solari muore a Bellinzona nell’84.

Diva del cinema risorta quindi sul palcoscenico, attrice sia in Italia, sia in Germania, interprete a suo agio con i sorrisi di Goldoni e Feydeau, ma anche con i dolori di Shaw e Pirandello, si può ben dire che la Solari sia stata un’attrice attratta dal doppio e vissuta due volte. E in questo è stata triestinissima.

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