L’attesa senza fine del regolamento per la cannabis “legale”
TRIESTE. Esiste dal 7 febbraio 2013, ma è ancora inapplicata: è la legge regionale che detta le modalità di erogazione per finalità terapeutiche dei medicinali cannabinoidi. Niente spinello libero, ma un provvedimento votato all’unanimità durante la giunta Tondo, per autorizzare la prescrizione di cannabis per le malattie su cui esista letteratura scientifica che testimoni l’utilità dell’assunzione. Il testo è simile a quello di altre dieci regioni (Puglia e Toscana a fare da apripista) che fra 2010 e 2013 hanno previsto la distribuzione di cannabinoidi in ospedali e farmacie, per il trattamento di sclerosi multipla e laterale amiotrofica, sindrome di Tourette, Parkinson, fibromialgia, glaucoma, tumori e hiv. La legge del Fvg non ha però originato un regolamento esecutivo, manifestando le stesse difficoltà d’applicazione denunciate in tutto il Paese dalle associazioni dei malati.
L’assessore alla Salute, Maria Sandra Telesca, è «sensibile al tema, perché le associazioni fanno pressione su una sostanza che ha dimostrato grande efficacia e che a livello terapeutico non ha effetti stupefacenti. Mi impegno personalmente a fare qualcosa: sto costituendo un gruppo di lavoro con medici e associazioni per definire le proposte da fare a Roma per uscire dalla stasi». La legge prevedeva pure che la giunta fornisse a febbraio i primi dati su efficacia della norma, costi e numero di pazienti trattati, ma la valutazione non è mai partita: «Ci penseremo al più presto», è la promessa dell’assessore.
In Italia l’accesso alle cure risulta complesso e i pazienti che riescono a usufruirne si contano in centinaia, nonostante migliaia di richieste. Per il Fvg mancano i dati, ma dottori e associazioni parlano di qualche decina di fruitori legali in totale. Tutto fermo, insomma, anche dopo la facoltà di prescrivere data ai medici di famiglia nel 2014: i cannabinoidi vanno infatti importati dall’estero con procedure complesse, nonostante un decreto del ministro Turco abbia reso legale la prescrizione nel 2007 e il ministro Balduzzi abbia riconosciuto nel 2013 l’efficacia non solo dei farmaci derivati ma della pianta stessa, recependo gli studi sulle controindicazioni dei medicinali di sintesi e la preferenza dei pazienti per il prodotto naturale.
A settembre il ministro Lorenzin ha incaricato lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze di coltivare 100 chili di canapa all’anno, ma il fabbisogno è tre-quattro volte superiore. Una domanda che guarda con impazienza alle proprietà analgesiche, sedative e miorilassanti nel trattamento di malattie neurologiche e nella terapia del dolore. Al momento, la sola cannabis legale circolante nel paese – il nome farmaceutico è Bedrocan – proviene da serre olandesi, importata dai sistemi sanitari regionali con lunghe trafile e con alti costi per i pazienti.
Per Telesca, «la sostanza manca ancora sul mercato, nonostante la produzione sia stata legalizzata. La Regione potrebbe seguire la Puglia nella scelta di avviare coltivazioni sul territorio: ci sono imprese in Fvg pronte ad attivarsi. Ma per prima avvieremo momenti di informazione per i medici, previsti dalla legge ma mai realizzati». E infatti pochi medici prescrivono un po’ per scarsa conoscenza, un po’ perché hanno autonomia di scelta sui trattamenti palliativi. E pochi farmacisti vendono, poiché bisogna disporre di un laboratorio galenico, nonostante il Bedrocan sia preparato semplicemente inserendo i fiori in bustine per infusioni. Le norme sono infine disomogenee sui rimborsi: solo Puglia e Toscana prevedono la fornitura gratuita, mentre nelle altre regioni, Fvg incluso, il paziente paga anche 30 euro al grammo se opta per l’assunzione fuori dall’ambito ospedaliero, al posto dei farmaci di sintesi in uso: poco importa che si tratti di oppiacei, passati gratuitamente. In Olanda il Bedrocan si vende a 7 euro al grammo. Lorenzin vorrebbe dimezzare i costi italiani mettendo sul mercato la produzione toscana, ma il governo deve ancora definire protocollo operativo, fabbisogni e tariffe. In questa fase la disponibilità resta minima e i pazienti si rivolgono allo spaccio, correndo rischi penali e accettando l’impossibilità di seguire cure precise, dato che solo una coltivazione monitorata permette di conoscere con esattezza la quantità di principio attivo. La questione ha non indifferenti risvolti economici, perché «potrebbe generare un giro d’affari di 1,4 miliardi all’anno, garantendo diecimila posti di lavoro alla coltivazione alla distribuzione», spiega Coldiretti in un’analisi dell’anno scorso.
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