Lastre della memoria in tre piazze e una via di Trieste per le vittime dei lager

TRIESTE Arrivano a Trieste, in occasione degli 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali annunciate in piazza Unità, le prime 16 pietre d’inciampo, i blocchi di pietra ricoperti da una lastra di ottone in memoria dei deportati nei campi di sterminio. Martedì 23 gennaio, sotto il porticato della sinagoga di via San Francesco, si è svolta la cerimonia per incastonare la prima delle “stolpersteine” davanti al tempio, per rendere omaggio a Carlo Morpurgo, segretario della Comunità ebraica negli anni bui dell’occupazione nazifascista.
L’appuntamento rientra nel calendario delle iniziative promosse dalla Comunità e dal Museo Carlo e Vera Wagner per il 27 gennaio, Giornata internazionale della Memoria. Con la posa delle prime pietre, Trieste si colloca dunque nel circuito nazionale del percorso “Stolpersteine”, il progetto ideato dall’artista Gunter Demnig, il cui ambizioso obiettivo è ricordare ogni singolo deportato nei lager. Il progetto si avvale del sostegno del Comune di Trieste e la collaborazione della Soprintendenza del Fvg, che ha dato l’assenso all’installazione.
E' stato Demnig stesso a incastrare i cubetti con incisi sulla piastra d’ottone il nome, le date di nascita e di deportazione, il luogo di prigionia, le date di morte e dell’eventuale liberazione. Quindi le “stolpersteine” riguardano anche i sopravvissuti (mancati poi a distanza di tempo dalla fine della guerra), come pure chi è tra gli ultimi testimoni viventi dell’Olocausto. Tra i presenti alla cerimonia ii rappresentanti delle istituzioni cittadine e i “padroni di casa”, in testa il rabbino Alexander Meloni e il presidente della Comunità Alessandro Salonichio. Parlando di testimoni ancora in vita, c'era Diamantina Vivante Salonichio, classe 1928, deportata a Bergen Belsen assieme alla madre, alle tre sorelle e al fratello, unica sopravvissuta alla deportazione.
«Un'opera piccola per dimensioni ma enorme per il significato che racchiude». Si è espressa così la presidente della Regione Autonoma Fvg Debora Serracchiani partecipando alla cerimonia di collocazione delle prime «pietre d'inciampo», alla presenza dei vertici della Comunità ebraica, del sindaco della città e dell'artista ideatore delle Stolpersteine, Gunter Demnig. Serracchiani ha ricordato la figura di Carlo Nathan Morpurgo, cui è dedicata la prima pietra d'inciampo, incastonata dinanzi alla Sinagoga Maggiore di Trieste: «Non faremo mai abbastanza per coltivare la memoria di quest'uomo giusto. Egli fu un vero eroe: mentre intorno si scatenavano le forze del male e tutti tentavano di salvarsi, rimase al suo posto saldo come un cedro del Libano, per salvare gli altri.
Anche nel momento più buio seppe nutrire la speranza nel ritorno di tempi migliori: aver sottratto i rotoli della Torah alla devastazione nazista è un atto di fede e di pietà, carico di una potenza simbolica che si spande oltre il recinto spirituale della Comunità ebraica e che ci tocca tutti»
Il pomeriggio si è snodato lungo le location che ospiteranno le targhe in memoria delle famiglie Berger Montanari (in piazza Giotti 1), Marcheria (in piazza della Borsa 4) e Vivante (in piazza Cavana 3) e, appunto, Carlo Morpurgo (in via San Francesco 19). “Qui lavorava Carlo Nathan Morpurgo, nato nel 1890”, reca incisa la pietra d’inciampo dedicata al segretario della Comunità che rinunciò a fuggire all’estero per aiutare il prossimo. Ma che riuscì, anche rocambolescamente, a mettere in salvo i rotoli della Torah, gli argenti rituali e preziosi documenti, nascondendoli in una stanza segreta della sinagoga, non segnata dalle mappe. Arrestato nel ’44 dalle Ss e detenuto per mesi al Coroneo, fu poi deportato a Auschwitz, dove morì il 4 novembre dello stesso anno. Nel 2012 la città gli avrebbe dedicato la mostra “Carlo Morpurgo, la tragedia di un uomo giusto”.

«Ci siamo persi, non li ho più visti». Quando “Tina”, la piccola di casa Vivante, arrestata durante una retata nel ’44 e deportata a Bergen Belsen, ritornò a casa nel ’45, non ebbe il coraggio di dire a papà Zaccaria, l’unico sfuggito alla cattura, che era l’unica sopravvissuta.
Il fratello Moise, la mamma Sarina e le sorelle Giulia, Enrichetta e Ester morirono subito dopo la Liberazione. Una famiglia la cui esistenza in via Riborgo è narrata da Mario Tabor nel libro “Memorie di pietra”, nell’intervista alla oggi novantenne Diamantina Vivante. Testimonianza che sarà da lei ripercorsa nel corso della posa in piazza Cavana.
Dei Berger Montanari non si sa molto. Ciò che è sicuro è che Eugenio detto “Giacobbe”, nato nel 1867 in Ungheria, e sua moglie Adele, classe 1879, vissero in piazza Giotti assieme al figlio Bruno e alla sua famiglia. Dopo l’8 settembre 1943, Bruno decise di mandare il figlioletto Alberto a Venezia con i nonni, per metterli al riparo. Purtroppo furono scoperti dalla polizia e deportati a Auschwitz, da dove non tornarono più.

Ida Marcheria, per i suoi aguzzini solo numero 70412, o meglio, “sieben null vier eins zwei”, come recita il sottotitolo del racconto di Roberto Olla “La ragazza che sognava il cioccolato”, è stata tra le più famose sopravvissute e testimoni della Shoah. Triestina di famiglia ebrea originaria di Corfù, nel’ 45, dopo la Liberazione, decise di trasferirsi a Roma, disgustata dai suoi concittadini che denunciarono lei e la famiglia ai tedeschi. Entrata a Birkenau l’11 dicembre del’ 43, ne uscì il primo maggio del ’45. «Lì, a soli 14 anni, ho conosciuto il male più assoluto», spiegava Ida quando andava a parlare nelle scuole. Nei due anni in cui le rubarono l’adolescenza, lavorò nella baracca Kanada vicino al forno crematorio. La famiglia, ovvero la madre Anna, seguita a ruota dal fratello Raffaele e dal padre Ernesto, finirono tutti nei forni crematori. Sopravvissuti la sorella Stellina e il fratello Giacomo.

Cosa sognava una ragazzina nell’inferno di Birkenau? La cioccolata, di cui le sembrava di sentire ancora l’aroma e la consistenza sul palato. Nella sua seconda vita decise così di aprire una rinomata cioccolateria in via Santa Maria Goretti. E siccome ricordava tutto e non perdonava nulla, fino alla scomparsa nel 2011, a 82 anni, continuò a testimoniare la sua esperienza di internata. Dal libro di Olla è stato realizzato il documentario “La ragazza che sognava la cioccolata”, premio oscar per i 50 anni della tv italiana.
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