L’arte di Gillo Dorfles in mostra a Trieste
L’omaggio al critico pittore viene inaugurato sabato al Museo Revoltella
MILANO
Elogio dell’intervallo. Da «L’intervallo perduto» pubblicato nel 1980 da Einaudi al grande dipinto «Custodire l’intervallo» del 1997. Passando per il ventennale intervallo durante il quale ha riposto il pennello tra gli anni Sessanta e gli Ottanta. La lunga vita di Gillo Dorfles, intellettuale, critico e artista, sembra una elaborata declinazione della necessità delle pause di riflessione, della separazione e del vuoto perché le cose, le opere, possano venire alla luce. Così potremmo considerare un lungo intervallo anche quello che separa la partenza del giovane Dorfles da Trieste nel 1930 e il suo ritorno, sabato 12 maggio al Museo Revoltella, con una mostra antologica che lo racconta pittore appassionato. Trieste recupera il tempo perduto presentando anche la autobiografia che Dorfles ha deciso di pubblicare dopo ottant’anni di silenzio assoluto, «secondo solo a quello proverbiale di Marcel Duchamp» ha ricordato Martina Corgnati, curatrice della mostra.
L’assessore alla Cultura Massimo Greco ha spiegato che questa mostra vuole essere più di un omaggio. «Non è solo un celebrare, sarebbe troppo poco. Il Dorfles pittore, il Dorfles artista, il Dorfles intellettuale, ha un’importanza peculiare per Trieste e la sua cultura. I suoi erano gli anni della prima diffusione della psicanalisi e della vivacità artistica degli amici Arturo Nathan e Leonor Fini. Delle frequentazioni con Svevo e Saba. Questa mostra vuole esplorare l’importanza di Dorfles per Trieste e di Trieste per Dorfles». La direttrice del Museo Revoltella, Maria Masau Dan, ha sottolineato che in tutti questi anni Gillo Dorfles non è mai stato lontano da Trieste. È visitatore assiduo delle mostre cittadine, autore di testi per cataloghi di mostre ospitate a Trieste, giurato di un Concorso di Design. «Egli non è solo un ”figlio” della città. Ha da sempre seguito il percorso del Museo Revoltella e della cultura triestina in modo lucido e critico, mai nostalgico».
La curatrice della mostra Martina Corgnati, che aveva già presentato una mostra di Dorfles, «il pittore clandestino», a Milano nel 2001, si dice felice di poter presentare ora a Trieste anche le opere inedite degli ultimi anni. Sessanta fra oli, tempere, acrilici e terrecotte, articolate in tre fasi: gli anni Trenta-Quaranta, il periodo del Mac e gli ultimi vent’anni fino a oggi. Dagli esordi con opere di ispirazione fiabesca – tempere, oli, acquarelli – in cui si confondono diverse forme e materie, aeree, liquide, solide, nate sotto l’influenza di Nathan, del surrealismo e soprattutto dell’antroposofia di Rudolph Steiner, attraverso gli anni Quaranta e Cinquanta con la fondazione del Mac (Movimento Arte Concreta) insieme a Gianni Monnet, Atanasio Soldati e Bruno Munari, in cui predomina la ricerca di forme concrete, pure, primordiali, dall’andamento spesso molto libero e il sapore organico. Fino alla ripresa con le opere dagli anni Ottanta che Martina Corgnati descrive come veri e propri «frammenti di racconto attraverso le immagini, costruiti con grande libertà riassemblando insieme pezzi dell’antico e sperimentato repertorio simbolico e segnico di arabeschi, grafemi, lessemi, macchie e ghirigori».
L’intervallo, cioè la tendenza ad alternare pieni e vuoti, volumi e spazi, lo ritroviamo fin dentro le sue opere. Martina Corgnati ha ricordato con affetto le visite in casa di Dorfles in preparazione di questa mostra, trovando un ultra novantenne orgoglioso di mostrare i suoi ultimissimi quadri, che mantengono la freschezza di un trentenne. Gioia originalità e ironia. Nella pittura, come nella scrittura e nella vita. Raccontare Gillo Dorfles è raccontare la storia della cultura italiana e internazionale del xx secolo. Nato nel 1910 a Trieste si trasferisce a Milano nel 1930 per studiare medicina e qui grazie agli amici triestini Ernesto Rogers e Bobi Bazlen entra in contatto con i maggiori architetti, artisti, letterati e intellettuali del tempo. È di quegli anni la sua collaborazione con «Italia Letteraria» e l’inizio di una produzione sterminata quanto ricca, profonda e spesso anticipatrice e originale che lo rende autore fondamentale per un’intera generazione di critici e storici dell’arte e del costume.
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