L’archeologo giramondo che parlava in pashtu e cacciava cobra dalle tombe in Medio Oriente

Addio al triestino Giorgio Stacul, docente di Protostoria eurasiatica e instancabile protagonista di campagne di scavi in Italia e in Asia  

TRIESTE Un archeologo avventuroso, viaggiatore instancabile, e per giunta un uomo interessante. Direste Indiana Jones. E invece è Giorgio Stacul, nato a Monfalcone e triestino adottivo, di cui si è chiusa qualche giorno fa una vita piena e felice. Dire “archeologo” non basta. C’è anche il giramondo, il giornalista, l’insegnante. Ma forse solo la parola “esploratore” riesce a definire questo personaggio libero, anticonformista, rigoroso e affascinante che ha avuto la fortuna di viaggiare tra Europa e Asia in tempi in cui forse c’erano più frontiere, ma il mondo era più semplice da girare.

Insegnante di Protostoria eurasiatica all’Università di Trieste, responsabile di oltre trenta campagne di scavi sulle montagne del Pakistan, studioso di archeologia mediterranea e del Carso, Stacul nasce nel 1929 e mostra subito i sintomi dell'inquietudine migratoria. A 12 anni, in piena Guerra mondiale, scappa di casa in treno per entrare nella Legione straniera, ma dopo un giorno viene formato dalla polizia. Nel '46 assiste alla morte della madre, uccisa quasi davanti ai suoi occhi da un rapinatore, una disgrazia che lo segna per sempre e lo porta ad allentare ancora di più i legami con la vita casalinga. È un “marinaio”. Comincia a girare l’Europa in autostop. È comunista libertario, frequenta balere, si diverte con il tip-tap. Per conquistare Maria Pia, sua futura moglie, prende un brevetto aereo, atterra sul prato dello stadio di Monfalcone e ne chiede la mano, poi parte con lei per la Svezia - viaggio di nozze sempre in autostop - dove raggiunge un gruppo di operai dei cantieri della sua città. Sono emigrati in Scandinavia dopo il tradimento della Jugoslavia di Tito, cui s’erano illusi di poter prestare la loro opera.

Lavora dove capita, sogna una vita pendolare tra Grande Nord e Mediterraneo. Si trasferisce in Spagna, ma c’è di mezzo Fulvio, il primo figlio, che nascendo gli restringe il campo d'azione. Ma non molla. Diventa collaboratore sportivo de “Il Piccolo”, e contemporaneamente agente librario dell’Einaudi. Si sposta ogni anno in una città diversa. Milano, Firenze, Roma, dove fa anche l'insegnante di lettere in un liceo. È un entusiasta, gli allievi lo adorano. In Costa Azzurra riesce a incontrare André Gide. Divora libri ed è così versatile che quando nel '57 si sposta in Sardegna, si innamora della civiltà nuragica e le dedica un libro, che sarà pubblicato negli Oscar Mondadori.

All'inizio degli anni ’60 pubblica un saggio divulgativo dedicato agli idoli della dea madre, poi segue una campagna di scavi nelle Marche, dove viene in contatto con l'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente. È la svolta della vita. L’Ismeo gli propone una campagna triennale nella regione dello Swat in Pakistan, millenario asse di comunicazione tra la pianura dell'Indo e le steppe nomadiche a Nord del Karakorum, attraversato anche dalle truppe di Alessandro il Grande. È una valle di bellezza sconvolgente, verdissima, dominata dalle nevi dell’Hindukush e non ancora toccata dai fondamentalismi islamici. Stacul vi tornerà per 41 anni di fila, fino a quando l’attentato alle Torri Gemelle renderà insicura tutta l’area.

Si dedica alla ricerca di città perdute, come la mitica Massaga, capitale degli Assakenoi. Il grosso problema degli scavi è che ogni mattina bisogna liberarli dai serpenti che vi si sono annidati durante la notte. La valle è infestata dai cobra e dai cani rabbiosi, ma il rapporto con gli abitanti è ottimo. I suoi operai lavorano duro, superano periodici attacchi di malaria, masticano oppio come tutti sull’altopiano. Giorgio impara la lingua dei Pashtun, l’etnia che di lì a poco darà vita ai Talebani. Assapora una libertà d’azione totale e scrive articoli per la Stampa, il Corriere, il Piccolo. Fa saltare al figlio Fulvio il quinto anno delle elementari e se lo porta in oriente per fargli vivere la prima grande esperienza della vita.

«Mio padre mi fece scavare due tombe», narra Fulvio Stacul, oggi primario di Radiologia al Maggiore di Trieste. «Nella prima non trovai niente, ma dalla seconda tirai fuori con le mie mani reperti in bronzo e una dea madre che oggi è conservata in un museo. Furono mesi stupendi. Ricordo l’arrivo dei nomadi Bujar, che si annunciavano con il rombo degli zoccoli delle loro mandrie e col tintinnio delle cavigliere delle loro donne. Vendevano gioie nei bazar di Mingora e di Saidu Sharif a un ricco intermediario che chiamavamo il Signore degli Argenti».

A Saidu Sharif contribuisce alla nascita di un bellissimo museo archeologico, tutto italiano, che anni dopo sarà devastato dai Talebani. La moglie lo segue sempre e dopo 12 anni gli dà un secondo figlio, Jaro, che nasce in Pakistan, diverrà antropologo e conoscerà una vita da giramondo simile a quella del padre. Per la coppia, lo Swat è un appuntamento fisso estivo.

Nel resto dell'anno, Giorgio Stacul insegna all’Università e le sue lezioni sono sempre affollatissime. Tutta la facoltà di Lettere antiche conosce il bel professore-giramondo, ricco di passione e aneddoti. Conduce campagne di scavo anche in Carso, sul castelliere di Slivia o nel Mitreo, per mettervi ordine dopo troppe incursioni di archeologi dilettanti. «Giorgio mi ha aperto un mondo con i suoi corsi sulle antiche civiltà dell’Indo e della Cina, e mi ha spinto verso l’archeologia, ma senza alcuna forzatura, era persona troppo rispettosa degli altri». Così lo ricorda Manuela Montagnari, docente di Paletnologia all’Università di Udine. «Era un professore atipico, lontano dai giochi di potere e mai invadente nelle scelte dei suoi allievi. Non ha mai imposto a me, sua giovane ricercatrice, attività e impegni che tanti miei colleghi erano invece obbligati a svolgere. Mi ha insegnato il rigore scientifico e l’importanza di un solido supporto teorico-metodologico, Cosa che ora cerco sempre di trasmettere ai miei studenti». —




 

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