L'appello del presidente della Fondazione Gimbe: «Subito zone rosse locali per evitare nuovi lockdown generalizzati»

Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe
Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe

TRIESTE Da un anno diffonde i numeri della pandemia, avvertendo i pericoli di un contagio mai spento. Adesso che la variante inglese sta facendo ulteriori danni, il suggerimento di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, è di mini-lockdown nelle zone più colpite dal contagio.

Presidente Cartabellotta, i numeri risalgono. È l’inizio della terza ondata?

Dopo quattro settimane di stabilità, il monitoraggio Gimbe 17-23 febbraio rileva un’inversione di tendenza con un incremento che sfiora il 10%.

La “responsabilità” delle varianti?

Con l’allentamento delle misure, la progressiva diffusione della variante inglese sta determinando impennate di casi che richiedono un attento monitoraggio per identificare tempestivamente le aree dove attuare le zone rosse. In 74 province su 107 province sono aumentati i nuovi casi rispetto alla settimana precedente, con valori che superano il 20% in 41 province.

Che cosa suggerisce questo scenario?

Per evitare lockdown più estesi, bisogna introdurre tempestivamente restrizioni rigorose nelle aree dove si verificano impennate repentine. Non si può temporeggiare aspettando i risultati del sequenziamento. Perchè la situazione rischia di sfuggire di mano.

Il suo invito è stato a lasciare le primule a colorare giardini e balconi. Vede discontinuità nella gestione sanitaria da parte del nuovo governo?

Il Governo Draghi è troppo “giovane”, ma è certo che manterrà la strategia di mitigazione con l’obiettivo di contenere il sovraccarico degli ospedali, visto che la strategia zero-Covid, sebbene molto avvincente, non sembra attuabile nel nostro Paese. Sia perché richiederebbe un lockdown rigoroso di almeno tre settimane, sia perché il sistema, non solo quello sanitario, non è stato adeguatamente potenziato per fare tesoro dei risultati delle chiusure. Ovviamente, la strategia di mitigazione ci impone di accettare lo sfiancante “stop and go” degli ultimi mesi, perché i risultati della campagna vaccinale difficilmente saranno tangibili prima del prossimo autunno.

Come arrivarci?

Il cambio di passo dovrebbe concretizzarsi in tre azioni fondamentali. Sulla campagna vaccinale aumentare le forniture lavorando ad accordi vincolanti tra Europa e aziende produttrici ed eventuale produzione conto terzi in Italia. Sul controllo della pandemia favorire l’applicazione con la massima tempestività e rigore di zone rosse locali per evitare lockdown più estesi e arginare gli effetti della terza ondata. Sulla programmazione definire una sequenza di riaperture a medio-lungo periodo, condividendo con la popolazione obiettivi realistici per un graduale ritorno alla normalità, ma senza fissare scadenze illusorie. Volenti o nolenti, l’agenda del Paese è ancora dettata dalla circolazione del virus e dalla progressione della campagna vaccinale.

Le Regioni devono usare le dosi a disposizione per la prima iniezione oppure accantonarle per la seconda?

L’accantonamento delle dosi dovrebbe essere programmato sulla base delle forniture e dalla velocità di somministrazione, ma la prima è una variabile non sempre prevedibile. Adesso il vaccino AstraZeneca offre un “maggiore respiro” perché la seconda dose può essere somministrata a dodici settimane dalla prima.

Solo oggi si parla di accordi con i medici di medicina generale e di produzioni di vaccini, operazione non fattibile in tempi brevi. Di chi la responsabilità di simili ritardi?

Non parlerei di responsabilità, ma di irrealistiche stime di approvvigionamento rispetto alla capacità produttiva delle aziende.

Aver ottenuto in meno di un anno il vaccino è stata una grande conquista della scienza, ma per trasformarla in un risultato di salute pubblica bisogna fare i conti con la produzione su larga scala e con l’organizzazione della più grande campagna di vaccinazione della storia —m.b.

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