La vita dei giovani cinesi triestini

Alessia Davino ha pubblicato la sua tesi di laurea che indaga il mondo dei circa mille giovanissimi cinesi residenti a Trieste

Nella prima tesi di laurea alla Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori si era occupata degli artifici retorici di Mao. Per la laurea “magistrale” ha continuato a esplorare la cultura cinese, sua grande passione, restringendo però il campo di osservazione a Trieste. La tesi di Alessia Davino, 28 anni, pubblicata dall’Università (Eut, pagg. 138, euro 10,00) è uscita così dall’ambito strettamente accademico per diventare un vademecum, una guida - supportata da numeri e diagrammi, ma preziosa soprattutto sotto il profilo umano - all’interno di una comunità difficile da avvicinare, spesso chiusa e diffidente, custode di codici e valori che agli estranei paiono indecifrabili.

Secondo i dati dello studio, riferiti al 2010, i cinesi “triestini” sono circa mille, lo 0,41% della popolazione cittadina, per la maggior parte compresi in fasce d’età che vanno dai 14 ai quarant’anni. Davino, che non nasconde i problemi di contatto legati all’«impenetrabilità», ha avuto però un punto di osservazione privilegiato: il doposcuola per ragazzi dagli 11 ai 15 anni organizzato dal marzo 2010 dagli istituti scolastici “Marco Polo” e “Via Commerciale”, al quale ha preso parte come aiuto docente, affiancando la mediatrice culturale Cao Xiang. «I bambini - racconta - sono stati veramente un raggio di sole e il mio unico contatto diretto con la comunità cinese. Il doposcuola ha rappresentato quindi un’esperienza fondamentale, anche grazie a Cao Xiang, che in Cina insegnava, quindi faceva a tutti un po’ da mamma e un po’ da docente, teneva lezioni in cinese per spiegare l’italiano, si incaricava delle comunicazioni alle famiglie sulle differenze tra i due sistemi».

. Lei si occupa molto della seconda generazione di sino-triestini. Perchè questi ragazzi vivono le difficoltà maggiori?

«Perchè sono “schiacciati” tra la famiglia, le loro radici, e il mondo esterno. Le difficoltà più evidenti le manifestano i giovani trasferiti qui da poco tempo. Al contrario, chi è nato e cresciuto a Trieste ha un’apertura maggiore e una migliore capacità di adattamento. Sono ragazzi con un carattere più forte, i cui genitori hanno fatto una scelta di stabilità consapevole e ben oculata. In questo caso, l’interesse economico va ad avvantaggiare anche la situazione psicologica dei figli».

Alcuni sono nati in Italia e poi sono stati “spediti” in Cina...

«Sì, i genitori li mandano dai nonni a due, tre anni, perchè il lavoro non lascia loro il tempo per occuparsene. Di solito ritornano in Italia a otto-nove anni e si trovano in un contesto completamente diverso da quello cui erano abituati, scoprono magari di avere fratelli più piccoli ma già grado di capire l’italiano, e non sono più viziati e coccolati come in Cina dai nonni. Sono bambini che si ritrovano a passare buona parte della loro giornata con persone che non conoscono, la cui lingua è incomprensibile. Purtroppo non hanno il tempo di ambientarsi, perchè già devono fare fronte a precise responsabilità».

Ne ha conosciuti?

«Ricordo il caso di una bambina di dieci anni, che frequentava il doposcuola su indicazione dei servizi sociali. Prima di andare a scuola, ogni mattina, accompagnava i fratelli all’asilo, li riprendeva al termine della mattinata, preparava il pranzo, poi dava il cambio alla mamma al lavoro, andava al doposcuola e, di sera, era lei a chiudere il negozio. Sono casi non infrequenti e difficili da trattare. Nella nostra scuola, martoriata dalle “riforme”, gli insegnanti spesso non hanno proprio la possibilità di seguirli».

È la lingua l’ostacolo insormontabile?

«È chiaro che i bambini più sono piccoli più imparano e manifestano apertura nei confronti di compagni e insegnanti. Per i più grandi che si ricongiungono ai genitori, mostrare sentimenti di disagio è un sintomo di debolezza. Hanno assorbito la chiusura emotiva tipica della loro cultura e portano un peso non indifferente. Quasi non gli sembra vero poter dire “non ho capito” o “non so fare”.

I genitori li aiutano?

«I genitori a volte insistono perchè i figli già grandicelli vengano mantenuti in classi inferiori alla loro età, non rendendosi conto che il problema della lingua non è legato alla classe frequentata. Pretendono dai figli che si facciano onore e sono convinti che ripetendo l’anno abbiano più tempo per apprendere. Purtroppo questo atteggiamento crea ulteriore conflitto interiore. Prendiamo la lezione di educazione fisica: un ragazzino di tredici anni costretto a fare gli esercizi adatti a uno di dieci, si sente stupido, e il rifiuto può sfociare in gesti di violenza o di bullismo. Le comunità cinesi più “antiche” da tempo affiancano italiano e cinese, in modo che i ragazzi comprendano sia la nostra lingua, sia la materia trattata».

È vero che per i genitori cinesi la scuola è un “parcheggio”?

«I più giovani, con i figli alla materna, sono di sicuro più coinvolti. Al progetto “Storie del pomeriggio” della scuola dell’infanzia ha partecipato anche una mamma cinese che, aiutata da un’italiana, ha raccontato favole tradizionali. I genitori più anziani, invece, hanno una concezione di questo tipo. C’è stato il caso di una nonna che ha portato la nipotina di 4 anni a scuola alle 7 di mattina e l’ha lasciata semplicemente lì, senza controllare che ci fosse qualcuno. La bambina è rimasta sola per tre quarti d’ora. Quando la nonna è stata convocata e rimproverata sembrava non capire di che cosa fosse responsabile, era solo preoccupata di aprire in ritardo il suo negozio».

E le bocciature?

«Vengono vissute come un “disonore”, un fallimento inappellabile. In questo caso, a volte i genitori rimandano il figlio in Cina, sia perchè hanno maggiore consapevolezza del “controllore”, cioè della scuola, sia perchè lì può comportarsi da adulto e sostenere a distanza le attività economiche della famiglia. Quello che invece colpisce è che tutti gli alunni cinesi hanno un corredo scolastico perfetto, come se i genitori supplissero alle carenze culturali e linguistiche con i beni materiali. E gli studenti sono ordinatissimi. Ricordo una festa al doposcuola: una volta finita, i piccoli cinesi sono andati a prendere scopa e paletta per ripulire tutto».

Lei sostiene che solo i ragazzi più grandi attribuiscono la colpa del loro insuccesso agli “italiani”...

«La prima generazione ha imparato a ignorare la comunità ospitante. La “prima e mezza” si trova tra l’incudine e il martello: non può rinnegare le origini e non si sente totalmente accettata. A volte il razzismo è più forte nei ragazzini cinesi che in quelli italiani, soprattutto se strappati dalle braccia dei nonni e mandati in una realtà del tutto diversa, senza sostegno».

Che cosa l’ha colpita dell’esperienza del doposcuola?

«Il tema in cinese di una ragazzina da pochi mesi in Italia. Ha scritto: “I tempi volano come l’acqua che scorre; in questi giorni le conoscenze vengono accumulate e ho avuto più amici. La mia vita si è arricchita di colori. Mi ricorderò di questi due mesi di studio, anche se all’inizio avevo un malcontento infinito, però quando ho visto le insegnanti prodigarsi per noi e preoccuparsi per noi ho avuto un flash nella mente: non devo deludere nè gli insegnanti nè me stessa”».

@boria_A

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