La verità dei periti sul giallo di Trieste: «Così è morta Liliana Resinovich»
Il corpo | Nessuna decomposizione | I test tossicologici | L’asfissia | 20 giorni di mistero | Ipotesi congelamento
TRIESTE Dunque Liliana Resinovich è morta per soffocamento. E si è soffocata da sola. Così scrive ufficialmente la consulenza medico legale sulla morte della donna, che di fatto conferma le indiscrezioni trapelate nelle scorse settimane. Soffocata con i due sacchetti di nylon avvolti in testa: la sessantaquattrenne triestina avrebbe inalato la propria anidride carbonica assopendosi fino a spegnersi.
Ma lo studio, preparato dal medico legale Fulvio Costantinides e dal medico radiologo Fabio Cavalli, dice molto altro ancora: le cinquanta pagine di accertamento radiologico forense svelano i dettagli sul ritrovamento del corpo, l’autopsia e i rilievi della Scientifica.
Per gli specialisti c’è una certezza – finalmente – su questo mistero: Liliana, scomparsa il 14 dicembre, è morta quarantotto ore prima del rinvenimento del cadavere, scoperto nella boscaglia dell’ex ospedale psichiatrico il pomeriggio del 5 gennaio. L’autopsia è chiara su questo, perché il cadavere non era in putrefazione.
Una certezza, questa dei medici legali, che paradossalmente riapre attorno al giallo - di nuovo - una marea di interrogativi: cosa ha fatto la donna nelle tre settimane intercorse tra la data della scomparsa e il giorno del decesso? Dov’è stata? Dove ha dormito? Ha vagato nei boschi? Impossibile visto che i vestiti che indossava apparivano puliti e in ordine. Com’è possibile che nessuno l’abbia vista per così tanto tempo? E cosa ha mangiato? Sembra nulla, visto che l’autopsia e l’esame tossicologico hanno rintracciato solo i resti del caffè e di un’uvetta (si presume di un panettone) consumati la mattina della scomparsa. Ma se fosse effettivamente riuscita a sopravvivendo al freddo invernale senza mangiare per tre settimane, cosa comunque difficile, avrebbe dovuto perdere molti chili. Invece il cadavere della sessantaquattrenne non si presentava smagrito, non di più rispetto al suo abituale peso.
Non solo. Il corpo – zona ascellare, pube e gambe – era depilato. Non c’era insomma una normale ricrescita che ci si potrebbe aspettare in tre settimane. Ecco allora che nella relazione gli specialisti avanzano un’ipotesi finora inedita - un’ipotesi classificata comunque come «molto remota» va precisato -. Quella secondo cui il cadavere della donna potrebbe essere stato «congelato», quindi nascosto da qualche parte prima di essere abbandonato nel bosco. In questo caso si tratterebbe di omicidio e occultamento di cadavere. Ma in mancanza di segni di violenza sul corpo – né l’autopsia né la Tac hanno individuato alcunché – la tesi portante della vicenda sui cui sta indagando il pm Maddalena Chergia, rimane quella del suicidio.
Liliana è stata trovata il pomeriggio del 5 gennaio nella boscaglia del Parco di San Giovanni, a una trentina di metri da via Weiss. Il cadavere era a terra, sul fianco sinistro, in parte ruotato verso quello destro in posizione semi fetale. La testa e parte del torace, come noto, erano infilate in un sacco nero della spazzatura; un altro sacco avvolgeva gambe e addome. A restare scoperta solo la parte centrale del corpo. I sacchi erano «puliti, integri». Così gli abiti: Lilly indossava un giubbotto grigio, una felpa rossa, canottiera, reggiseno, slip, pantaloni con cintura, scarpe, una borsetta nera a tracolla con la scritta “Biagiotti”, un orologio analogico fermo alle 9.17 (o 21.17). Era senza la fede. Le mani afferravano la cerniera del giubbotto. La testa e il viso erano dentro a due sottili sacchetti di nylon, della tipologia utilizzata per la frutta e la verdura. Sacchetti chiusi a livello del collo, con un cordino legato in modo non molto stretto.
Sono spuntate tre piccole tracce sul viso: la palpebra superiore destra «apparentemente tumefatta», una lieve emorragia alla lingua e sangue in una narice. La consulenza radiologico forense non dà particolare importanza a questi dettagli, forse perché potrebbe trattarsi di effetti fisiologici post mortem. Il corpo, comunque, non presentava alcun segno evidente di manipolazione.
«A una valutazione generale dei fenomeni post mortali osservabile mediante Tac, si segnala come siano praticamente del tutto assenti i segni degenerativi negli organi e soprattutto l’assenza di gas putrefattivi», si legge nel documento. Aspetti questi, considerando la stagione invernale (ma in quei giorni non faceva molto freddo), che fanno pensare a un decesso sopravvenuto «al massimo entro 48 ore dal ritrovamento».
La consulenza tossicologica che la Procura ha affidato al chimico tossicologo Riccardo Addobbati, ha escluso che Liliana abbia assunto sostanze. Nessuna traccia di alcol e nemmeno la presenza di Losartan e di amiodarone, farmaci nella disponibilità della donnaperché li assumeva a casa il marito Sebastiano Visintin. Addobbati ha allargato la ricerca ad altre mille sostanze, senza trovare alcunché. Le rilevazioni hanno trovato solo caffeina, teobromina e uvette. Elementi compatibili con la colazione che Lilly aveva l’abitudine di consumare di mattina. Gli esami hanno rilevato infine tracce di un multivitaminico, di un’aspirina e una tachipirina.
Nella relazione Costantinides e Cavalli precisano che la iniziale diagnosi di morte per “scompenso cardiaco acuto” – quella fin qui ufficiale – era stata comunicata «ad esclusivo uso del rilascio del nulla osta per la sepoltura». Ma le nuove conclusioni suggeriscono ora un decesso da «asfissia»: i due sottili involucri di nylon calati sul capo di Liliana possono aver determinato quella che viene definita “morte da sacchetto”. Nella relazione si fa riferimento a una «asfissia da spazio confinato» che si verifica quando una persona si trova in un ambiente in cui l’ossigeno è in esaurimento. «Non è necessario che lo spazio confinato sia ermeticamente chiuso, essendo sufficiente il mancare di un adeguato ricambio d’aria», è spiegato nella relazione.
Ma ecco un altro passaggio importante che consente di capire cosa può essere effettivamente accaduto con i sacchetti: «Appare chiaro – si legge nel carteggio – come bastino pochi atti respiratori per raggiungere una concentrazione di anidride carbonica tale da indurre perdita di conoscenza e risultare incompatibile con la vita in tempi brevi». L’autopsia ha rilevato comunque che Liliana soffriva di un problema cardiaco che potrebbe aver favorito il decesso. Favorito, ma non determinato.
Sparita il 14 dicembre, per i consulenti della Procura Liliana è morta intorno al 3 gennaio. Tra le ipotesi percorribili, almeno in linea astratta, c’è quella che la donna abbia vagato per quasi tre settimane prima di togliersi la vita. Ma Lilly non può aver trovato rifugio in un albergo, visto che non aveva documenti, denaro, Green pass. È possibile che qualcuno le abbia offerto riparo? Appare alquanto improbabile che la donna si sia nascosta per tutto il tempo in una delle strutture diroccate dell’ex Opp. In quel caso, infatti, la Polizia scientifica avrebbe trovato riscontro sui vestiti: quegli immobili sono polverosi, pieni di rifiuti e ragnatele. Invece, come detto, gli abiti non erano sporchi. E anche gli slip erano puliti, tranne che per una traccia biancastra. Insomma, ci sono elementi effettivamente incompatibili con una ricostruzione che vede Liliana vagare per tre settimane nei boschi dell’ex Opp. O altrove. E senza che nessuno la noti. Né un passante. Né una telecamera fatta eccezione per quella dell’impianto di video sorveglianza della Scuola di polizia di via Damiano Chiesa che avrebbe registrato il passaggio della sessantaquattrenne la mattina della scomparsa. Ci sarebbe una ulteriore immagine, molto vaga, catturata da un autobus nei pressi di piazzale Gioberti sempre la mattina della sparizione.
Di nuovo poi nella perizia, come accennato, c’è la «remota» ipotesi secondo cui il decesso potrebbe risalire al 14 dicembre 2021, stesso giorno della scomparsa. Ma in quel caso la morte sarebbe avvenuta «in luogo ignoto e diverso, con cadavere conservato e poi teoricamente congelato». E poi, ancora, «spostato a gennaio nel luogo del rinvenimento». Ma nella relazione è precisato che «non vi sono, allo stato, elementi specifici per dimostrare un avvenuto congelamento post mortale del cadavere».
Tuttavia il dottor Costantinides e il dottor Cavalli lasciando aperta questa eventualità, per quanto appunto remota, soffermandosi dettagliatamente sui possibili scenari: «Il cadavere – scrivono –, per essere collocato nella posizione e nel luogo di rinvenimento, o doveva essere stato subito congelato in tale posizione (con un congelatore di grandi dimensioni) e successivamente trasportato nella stessa posizione nel luogo di ritrovamento; oppure, ancora, doveva essere stato congelato in altra posizione per poi essere scongelato e trasportato in qualche modo, in tempi brevi, su terreno impervio e posizionato in loco». Una ricostruzione complessa, che fa comunque propendere i consulenti per un decesso «risalente a due, massimo tre giorni, prima del rinvenimento del cadavere». Dalla scomparsa alla scoperta del cadavere restano insomma tre settimane di buio, tre settimane di mistero irrisolto.
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