La Trieste nascosta nella “Piccola Berlino”

All'inizio di via Fabio Severo possiamo notare tuttora ben quattro ingressi di gallerie, sbarrati da cancelli di ferro. Si tratta della cosiddetta Kleine Berlin (Piccola Berlino), un complesso di gallerie antiaeree usate principalmente durante la Seconda guerra mondiale. Le prime tre facevano parte del ricovero italiano, mentre la quarta era una galleria privata, usata esclusivamente dai tedeschi. Nel 1995 il Club Alpinistico Triestino, a proprie spese, affittò dal Comune di Trieste il complesso abbandonato, sperando che un giorno potesse diventare un museo sulla condizione della popolazione civile durante il Secondo conflitto mondiale.
Quando nel 1940 l'Italia dichiarò guerra all'Inghilterra e alla Francia, tutte le città dovevano avere dei rifugi antiaerei in caso di bombardamenti della parte nemica. Lo Stato italiano decise di dare dei contributi alle città che avrebbero costruito i ricoveri. Trieste fu una delle poche città che partecipò al progetto. Kleine Berlin fu realizzata durante quegli anni: a galleria comunale fu costruita nel gennaio del 1943. Si tratta di quella situata di fronte alla sede Rai (terzo ingresso), lunga 250 metri, in grado di contenere 1300 persone. Non sono stati mai completati gli ultimi 50 metri per collegarsi con la galleria di via Tibullo. Forse non era mai stata terminata perché la ditta abbandonò il lavoro per costruire la parte tedesca.
Dopo l'armistizio del 1943 i tedeschi occuparono il territorio italiano, inclusa Trieste, che per un anno e otto mesi divenne parte della Germania. I tedeschi requisirono la zona dal tribunale fino a piazza Oberdan, per questo i triestini iniziarono a chiamarla "Kleine Berlin", con l'errore grammaticale, poiché dovrebbe essere Kleines Berlin o Das kleine Berlin.
La galleria comunale per i triestini è molto diversa nell'aspetto architettonico da quella per i tedeschi. Il terreno non è mai stato cementato: c'erano fango e insetti che sbucavano fuori dalla terra. Il tasso di umidità era alto. Non c'erano panche o sedie per i rifugiati, i quali erano costretti a portarsi da casa degli "scagnetti". Senza di essi rimanevano in piedi per ore, al freddo, tremanti per la paura, udendo quei 'gabbiani' di ferro che passavano sopra le loro teste. I servizi igienici causarono molte lamentele da parte della popolazione. L'aria era irrespirabile per via della puzza che emanavano i gabinetti intasati, infatti, per 1300 persone ce n'erano solamente quattro. Dopo varie proteste il Comune fece installare dei pozzi di aerazione, collegati con l'esterno.
Nella parte tedesca nessun italiano era autorizzato a entrare. La galleria 'tedesca' aveva uno spessore di cemento alquanto grosso, di colorazione bianca. C'erano bagni attrezzati di lavabi, collegati con l'erogazione d'acqua.
Proprio sopra questo rifugio si insediò Odilo Globocnik, nato a Trieste nel 1904, diventato comandante delle SS, ritornato nella sua città natale per combattere io partigiani che avevano inasprito la loro attività. Fu lui ad aprire la Riseria di San Sabba e divenne anche comandante supremo delle SS e della Polizia. Globocnik si instaurò nella Villa Ara, sul monte di Scorcola. Non scelse la villa per caso, infatti, come detto, sotto di essa si trovava il ricovero tedesco. Odilo Globocnik si fece costruire un passaggio per poter collegare casa sua al rifugio. Usò il sottopassaggio anche per raggiungere facilmente i suoi uffici al Palazzo di Giustizia. Il 29 aprile del 1945 Globocnik abbandonò la città con alcuni suoi collaboratori e, per evitare la cattura da parte degli Alleati, si tolse la vita con una capsula di cianuro a Paternion, in Austria.
Nel Dopoguerra il Comune di Trieste pensò di usare le gallerie come collegamenti stradali, ma l'unica galleria antiaerea a venir usata per questo scopo fu la galleria Luigi Razza, tuttora attiva: si tratta di quella posta tra piazza Foraggi a via Salata, un'importante arteria che collega il quartiere di Sant'Anna con la zona di viale D'Annunsio e dell'Ippodromo di Montebello.
Mateja Hervat
III D istituto tecnico
Anton Martin Slomsek
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