La “Traduttrice” che ama i libri di Magris
di Alessandro Mezzena Lona
Lui, il tema di maturità scandito dalle parole di Claudio Magris lo avrebbe scelto a occhi chiusi. Sì, perché Rabih Alameddine deve conoscere molto bene i libri dello scrittore triestino. Tanto da dedicargli alcune pagine molto intense, a una serie di richiami sparsi qua e là, nel suo nuovo romanzo. Che arriva in Italia, pubblicato da Bompiani, a quattro anni di distanza dal successo di “Hakawati. Il cantore di storie”.
Alameddine non è uno scrittorucolo alle prime armi e neppure un ragazzino. Nato in Giordania nel 1959 da genitori libanesi, approdato a San Francisco in America dopo aver vissuto in Kuwait, Libano e Inghilterra, con “Hakawati” ha incassato in America i complimenti di scrittori ormai affermati: Jonathan Safran Foer, Junot Díaz, Aleksandar Hemon.
Pubblicato nella versione di Lucia Vighi, il suo romanzo “La traduttrice” (pagg. 303, euro 18) è una vera e propria dichiarazione d’amore per la letteratura. Al centro della scena c’è Aaliya, una donna di 72 anni con i capelli tinti di blu. Forse, quel colore l’ha messo per sbaglio, ma in realtà rappresenta molto bene la sua personalità. Lei ha sempre vissuto a modo suo, non accettando imposizioni da nessuno.
Con i genitori, i fratelli, i rapporti sono sempre stati difficili. Giovanissima, ha sposato un uomo da cui si è separata rapidamente. Conservando un ricordo pessimo. I dettami della religione musulmana li ha ripudiati non appena è riuscita a liberarsi dal giogo della famiglia A ben guardare, il suo unico credo è la letteratura.
Aaliya traduce romanzi soltanto per il piacere di farlo. Conosce due lingue, oltre all’arabo: il francese e l’inglese. E siccome non si accontenta di leggere soltanto autori anglofoni o francofoni, allora prende le traduzioni di Tolstoj, di Sebald, di Bernhard, e le lavora con pazienza. Poi, una volta finito il suo compito, ripone i fogli con la traduzione in una grande scatola e la ripone in bagno. A fare compagnia a tante altre. Gli editori non sanno niente di lei.
In cima alla pila dei volumi più amati c’è “Microcosmi” di Magris. «Ho letto solo un altro suo libro, “Danubio” - confessa la traduttrice -, di cui, tra le tante frasi impeccabili, una in particolare avvolse per mesi come una piovra la mia testa convulsamente fragile». È quella che dice: «Kafka e Pessoa non arrivano alla fine della notte buia, ma di una notte di una mediocrità incolore che è persino più inquietante, e in cui si diventa consapevoli di essere soltanto una gruccia su cui appendere la vita, e che in fondo a quella vita, grazie a questa consapevolezza, forse si può cercare un disperato residuo di verità».
Magris (che ha scoperto con piacevole sorpresa l’omaggio di Alameddine al rientro da una vacanza), Marguerite Duras, Alice Munro, J.M. Coetzee, sono una diga che Aaliya erge per tenere a bada il mondo. Fuori dalla finestra infuria, a intermittenza, la guerra che sconvolge il Libano. Che trasforma giovani pacifici in spie e assassini. Che costringe una creatura mite come lei a dormire con un Ak47 sul cuscino. E poi, si materializza sua madre, dopo anni di silenzio: il fratello e la cognata vorrebbero scaricarla a lei. Stanchi di doversi occupare di quella vecchia che sta perdendo la bussola della realtà.
E allora, Aaliya si trasforma sempre più in una creatura di carta. Che vive irridendo le meschinità della vita con le parole degli scrittori amati. E che sopravviverà anche alla beffa finale di un destino ottuso. Perché, l’antidoto a tutto è scegliere se tradurre la Yourcenar o Coetzee. Ce ne sono di libri belli in giro...
alemezlo
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