La strana fuga dalla vita in una barca sul canale

Si intitola "La terra vista dall’acqua" il nuovo racconto di Federica Manzon ambientato in una Trieste sospesa tra la realtà e la fantasia. Ai lettori i suggerimenti sulla continuazione della trama: mandate foto a racconti@ilpiccolo.it
Il Canal grande di Trieste in una foto di Francesco Bruni
Il Canal grande di Trieste in una foto di Francesco Bruni

Stai attento. Tieni i piedi per terra, mi avevano detto. E per anni non ho fatto che questo. Ho tenuto i piedi ben agganciati a terra e sono diventato uno stabile, senza grilli per la testa, uno che le nuvole le guarda sempre da una certa distanza. Ho fatto quello che fanno le persone come me, e ho messo giudizio.

Ben piantato, ho percorso chissà quanti chilometri qui in città. Conosco ogni strada, ogni erta e non c'è angolo oscuro che mi sia segreto. So dove si danno appuntamento gli amanti clandestini, dove i bambini organizzano i loro giochi più seri, ho la mappa dei percorsi che fanno le ragazze quando vogliono spettegolare in pace e quando invece si mettono in mostra, e saprei dove cercare un vecchio che stia ad ascoltarmi, se mai volessi raccontare come ad un amico.

È servito a qualcosa questo mio equilibrio terreno? No, decisamente no. Ed è inutile che mi metta a spiegare cos'è andato storto.

Non ha più molta importanza. Non ho nessuna intenzione di rimettere piede sulla superficie solida. Lo so quanto è ingannevole. Come il cuore, diceva un romanzo che avevo letto molto tempo fa. Ora ho smesso di leggere - tranne quelle lettere, naturalmente.

La gente passa, lì sulla strada, e mi guarda con la simpatia che si riserva agli eccentrici quando appaiono innocui. Ricambio senza mai rivolgere parola e intanto li osservo: loro, i terrestri.

Il mio rifugio non passa inosservato, qui sul canale. Forse perché la barca è più grande delle altre, com'è ovvio, dal momento che ci vivo. Forse perché mi sono scelto la posizione migliore: tra i ponti, circondato da bar e da ristoranti dove si danno appuntamento individui solitari senza appartenenza, diversi da quelli che si aggirano in Cavana o in via San Nicolò salutandosi tutti tra loro. Forse è solo il mio fissare insistente ad attirare gli sguardi, senza eccezione per le ore notturne.

Potrei dire che sono felice, sicuramente placato, ora che non ho più nessun appoggio sicuro, ma solo questo ondeggiare lieve e la marea che a volte mi solleva a volte mi sprofonda. E poi tutta quest'acqua attorno attutisce i rumori dentro la mia testa e io non penso più. Non mi curo di cosa potrebbe accadermi domani o delle conseguenze di quelle mie azioni passate. Sull'acqua il tempo è inceppato, ha la dolcezza ripetitiva dei moti lunari. È sicuro qui, e poi chiamano quella terraferma...

Un racconto da immaginare per Il Piccolo
La scrittrice Federica Manzon

Ogni tanto ci provano a tirarmi a riva. Mi chiedono se voglio bere uno spritz, se mi va un po' d'ombra nelle ore estive del dopopranzo, una ragazza una volta mi ha chiesto di accompagnarla a scegliere una collana (dio mio, ha fatto proprio quel gesto con la mano toccandosi il collo, come a proteggere una fragilità troppo esposta, il punto dove una lama può affondare con efficace fatalità). Sorrido e scuoto la testa, non c'è alcuna possibilità che io ritorni con i piedi a terra.

Qui a galla ho tutto quello che mi serve: verdura e frutta calata dalla piazza del mercato assieme a un pane che dura a lungo e qualche barattolo di miele, due giacchette e un numero di maglie sufficienti a farmi apparire decoroso, il binocolo con lenti da 63 millimetri.

Durante il giorno sonnecchio, faccio piccoli lavori di manutenzione, ascolto le conversazioni sopra la mia testa. Non guardo mai verso il mare. Ho perso l'abitudine di cercare un colpo di respiro nella vastità del golfo: non ho bisogno dell'ossigeno che serve agli atleti o agli audaci che sperano sempre di salvarsi per un soffio. Solo ora mi rendo conto di quanto sia un'abitudine tentatrice trovarsi al fianco quell'apertura sterminata di possibilità - uno squarcio azzurrino che sta lì a ricordare a chiunque, in città, che è sempre possibile abbandonare tutto e lanciarsi al largo, che una seconda occasione è concessa.

Ma è un'illusione da sciocchi. E a guardarla da questa mia prospettiva capovolta, la città mi insegna regole più sensate: bisogna muoversi all'ombra dei palazzi, cercare il balenio di una luce dietro le tende, imparare i nomi sui citofoni e mandare a memoria gli orari in cui gli scuri vengono aperti e soprattutto chiusi.

Per anni ho attraversato queste strade in un'unica direzione, dalla chiesa di Sant'Antonio Nuovo al mare. Nascondendo come mi riusciva l'ansia di raggiungere una via di fuga, il mare aperto. Ho accelerato il passo, moltiplicato i percorsi, non riuscendo comunque ad avere tutto sotto controllo, a essere dappertutto nello stesso momento. È questa fregatura di essere in un solo spazio in un unico tempo la colpa di tutto - la nostra sciocca dimensione di terrestri. O di mortali.

Eppure, lo dico ora, sarebbe bastato sedermi con le spalle al mare e stare fermo in questa mobile piattaforma come davanti al vetro di un acquario.

Eccoli, ora li vedo finalmente. Il bar che per molti è diventato il posto in cui darsi appuntamenti riparati, così esposto alla vista da diventare invisibile. Il titolare, Robi, è tra i tavoli con la lista appiccicosa o a fumare una sigaretta appoggiato allo stipite d'entrata: scruta e protegge. Copre con casuale noncuranza traffici di merci e sentimenti affinché nessuno disturbi chi si reca da quelle parti a trovare conforto, anime inquiete di mia conoscenza.

Il profumiere all'angolo, Jean Marie dicono si chiami, con le sue vetrine fumè da cui è facile vedere all'interno le donne, soprattutto le donne, allungare il braccio nudo per lasciarsi accarezzare da quel naso indagatore. Porgono ignare il collo, esponendosi a un'ambigua vicinanza per avere in cambio filtri subdolamente magici. Con i loro poteri, lo ammetto.

E poi c'è quel povero diavolo del musicista arrivato da chissà dove, con buona probabilità dall'est. Come si conviene porta pantaloni neri troppi corti, scarpe da palcoscenico, una giacchetta striminzita sopra la camicia senza colletto. Trascina il contrabbasso e la valigia con gli spartiti come bestie al guinzaglio. A volte è infastidito dalla loro presenza e si capisce che vorrebbe liberarsene, altre volte ne cava un po' di affetto che lenisce la solitudine, disattende la fine.

Sulla finestra al primo piano del quarto palazzo sulla sinistra, a salire dal mare, non dovrei nemmeno alzare lo sguardo. Le tende sono discoste ad arte ed è impossibile dalla mia posizione non essere tentati...

(1 - Segue)

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