La strage dei romeni in fuga da Ceausescu: quelle migliaia di morti lungo il fiume Danubio

TRIESTE È una storia di migranti, dimenticata tra i gorghi di quel bel Danubio blu che scorre tra la Romania e, a quei tempi, la Jugoslavia di Tito. Danubio, dunque, come limes, come muro tra Est e quell’altro Est (il comunismo non allineato del Maresciallo) che dal 1965 al 1989 ha inghiottito migliaia di romeni in fuga dal terrore di Ceausescu. Ma non solo romeni: anche tedeschi dell’Est che, considerato insuperabile il Muro di Berlino, hanno tentato di attraversare il Muro d’acqua danubiano. In ottocento sono fuggiti dalla Ddr e solo 250 sono riusciti a raggiungere vivi la sponda jugoslava.
Ma i morti non furono solo le vittime dell’impeto del maestoso fiume europeo, ma anche dei proiettili delle guardie di confine romene che ai fuggiaschi non esitavano sparare alle spalle e, talvolta, portando anche all’incidente diplomatico con Belgrado, inseguendo le proprie “lepri” sconfinando in Jugoslavia.
La strage del Danubio sta venendo lentamente a galla grazie al lavoro di una giornalista investigativa romena, Marina Costantinoiu che è stata contattata telefonicamente da un medico legale serbo in pensione che la invitò a visitare i cimiteri dei paesini a cavallo del confine tra Romania e l’attuale Serbia. Costantinoiu si trovò così di fronte a centinaia di tombe di romeni lì sepolti in gran fretta dopo che i loro cadaveri furono restituiti dal Danubio oppure trovati a terra raggiunti da un proiettile di mitraglietta.
Le indagini, avallate tra l’altro anche dal lavoro di una commissione della presidenza della Repubblica di Bucarest relativa ai crimini del passato regime comunista, parla di migliaia di morti tra il 1965 e il 1989 (non esiste a oggi un numero ufficiale), e si sta concentrando ora sugli archivi della Securitate romena, non facilmente accessibili anche perché l’opera della giornalista è circondata da moltissima omertà perché la gente ha, dopo 29 anni, ancora paura. Tanta paura.
I cosiddetti “border-jumpers” se erano abbastanza fortunati da sopravvivere alle acque del Danubio o alla mira delle guardie di frontiera romene erano intercettati dai militari o dalla polizia jugoslava (Milica) e venivano rinchiusi dai 10 ai 30 giorni nelle prigioni serbe di Požarevac, Kladovo o Negotin. In quel periodo veniva deciso il loro destino: rispedirli in Romania oppure avviarli all’apposito centro profughi di Padinsko Selo, gestito dalla Polizia federale jugoslava e dove c’era anche un ufficio dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr).
Quali fossero i termini di giudizio non è cosa molto chiara, sembra evidente che chi era in grado di “fornire” copiose mazzette nelle mani giuste evitava il respingimento. A Padinsko Selo, come raccontano alcuni protagonisti di quelle fughe, le condizioni di vita erano durissime. Qui l’Unhcr stabiliva se ciascun richiedente asilo politico avesse i requisti necessari. Se la risposta era positiva era lo stesso Unhcr a trovare al migrante il Paese di accoglienza. Chi riceveva risposta negativa veniva rispedito nel Paese da cui proveniva e dove veniva considerato come un traditore della patria con le facilmente immaginabili conseguenze.
Durante la dittatura di Ceausescu, come spiega al quotidiano sloveno Delo Marina Constantinoiu, l’unico modo legale per lasciare il Paese era quello di comperare la propria libertà dal regime stesso. Il prezzo era conforme all’età, al livello culturale, allo status sociale del richiedente. Fu così che negli anni Ottanta chi aveva parenti in Occidente e quindi con una certa disponibilità economica, e questi erano soprattutto tedeschi ed ebrei, riusciva ad andarsene.
In quegli anni se ne andarono così in 500 mila. Altri, come professori o studiosi appena si recavano all’estero per qualche convegno o conferenza chiedevano asilo politico. I meno fortunati avevano di fronte a sé invece le acque del Danubio. O i fucili dei militari che presidiavano il confine, in alcuni tratti anche minato, con la “ribelle” Jugoslavia, quella dello strappo del Cominform di Tito. I racconti nei paesini serbi di confine sono terrificanti. I soldati romeni violavano sistematicamente il confine con l’allora Jugoslavia per acciuffare i fuggitivi per poi dare vita a vere e proprie esecuzioni sommarie nonostante gli abitanti dei luoghi li implorassero di risparmiare quelle vite. Crimini, crimini contro l’umanità, trent’anni dopo ancora impuniti. —
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