«La siriana conosciuta in Bosnia rivista qui con le piaghe ai piedi»

Il racconto toccante di una volontaria dell’associazione Linea d’ombra che presta aiuto ai profughi in arrivo a Trieste dalla Balkan route 

LA TESTIMONIANZA



La meraviglia di un incontro inatteso si fa strada tra la disperazione, creando piccoli spazi di umanità. Succede in Porto vecchio, dove i volontari dell’associazione Linea d’ombra ogni giorno portano cibo, vestiti e cure mediche primarie ai migranti che si trovano là, lasciati a se stessi in piena emergenza Covid-19. L’organizzazione è attiva non solo a Trieste ma anche in Bosnia Erzegovina, dove sovente si reca risalendo la Balkan route. «

Durante il nostro ultimo viaggio – racconta Lorena Fornasir, una volontaria – abbiamo conosciuto varie persone, tra cui una famiglia siriana che, benché ridotta a uno stato primitivo, si distingueva per la sua dignità: era composta da una dottoressa dell’ospedale di Damasco, suo marito e sua cognata, affamati, senza acqua corrente né un centesimo in tasca, che vivevano in una baracca di cartone». I tre sono fuggiti dalla Siria perché altrimenti sarebbero morti e, dopo un anno e mezzo di cammino, sono arrivati nella tristemente nota cittadina bosniaca di Velika Kladuša: «Qui hanno tentato “the game” dieci volte – prosegue Fornasir – venendo sempre respinti al confine e derubati di tutto dalla polizia croata. In seguito ho perso le loro tracce. L’altra sera poi stavo curando un ragazzo in Porto vecchio, quando un’altra volontaria mi ha detto: “Sono arrivati altri”. Mi giro e vedo la dottoressa di Damasco, magrissima, con i piedi piagati: inizialmente non voleva che glieli curassi, per pudore, ma alla fine me l’ha permesso, per affetto. È stato un incontro commovente, misto di gioia e tristezza: sua cognata infatti è stata catturata dalla polizia e non è più con loro. Abbiamo fatto una videochiamata alla volontaria di Velika Kladuša, amica comune: si è messa a piangere, senza dire una parola». L’attività di volontariato in Porto vecchio intanto prosegue in un «clima pesante. Ogni giorno arrivano circa dieci di persone. Non hanno un posto dove stare. Mi dicono: “Non siamo morti attraversando le montagne e rischiamo di morire di coronavirus in carcere, nel Cpr”. Stasera (ieri, ndr) ho curato i piedi piagati di un ragazzo terrorizzato che mi chiamava “mom” e mi diceva di voler andare via da qui. Io gli ho spiegato che l’Europa è chiusa».—



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