La sfida di Cirinà: Trieste più centrale nel mio progetto per le Generali

L’ex top manager oggi candidato ad nella lista di Caltagirone

«Sono pronto a fare causa contro il mio licenziamento»

 

Giuseppe Bottero Francesco Spini
Piranha Photography 2014
Piranha Photography 2014

TORINO «Penso di conoscere bene la famiglia delle Generali, a tutti i livelli. Il primo passo, in caso di vittoria, sarà quello di mobilitare, allineare, coinvolgere le persone sul nostro progetto», dice Luciano Cirinà in questa prima intervista da candidato ad del Leone, all’interno della lista con cui Francesco Gaetano Caltagirone all’assemblea del 29 aprile sfiderà la compagine del cda uscente che ricandida l’attuale ad Philippe Donnet. Licenziato in tronco dal cda, dice: «Mi sarei dimesso in caso di sconfitta, ma non sto facendo nulla contro le Generali, sono e sarò sempre un uomo delle Generali. E ora dovrò difendermi per le vie legali».

Cirinà, lei era un manager tra i più importanti delle Generali, con una esperienza ultratrentennale. Come mai ha deciso di impegnarsi in questa partita?

«Perché credo che ci sia un potenziale inespresso nella compagnia. Il nostro è un piano credibile e coerente che punta sulla razionalizzazione dei Paesi in cui Generali è presente, sulla revisione dei costi, sulla spinta all’information technology e alla performance del business. Bisogna decidere anzitutto dove focalizzare la presenza del Leone in un’ottica di profittabilità nel lungo periodo».

Dove devono svilupparsi le Generali?

«Faccio un esempio. Nel 2002 Sergio Balbinot ha aperto in Cina una joint venture con un primario partner locale e in seguito, a parte la capitalizzazione necessaria per seguire il business, non è stato più investito un euro. In India da tre anni il partner è sull’orlo del fallimento e solo adesso, grazie alla pressione di alcuni azionisti, ci si è mossi. In Europa abbiamo mercati maturi dove dobbiamo mantenere le posizioni: l’Italia, la Francia, la Germania. Ma anche la Spagna e i Paesi del centro est Europa hanno ancora del potenziale da esprimere. L’Asia però è il punto essenziale».

Crescere in Cina, dove decide tutto il governo, non è facile, non trova?

«Se non ci muoviamo noi, nessuno ci aspetta. In Cina c’è un mercato difficile per gli stranieri, è vero. Ma ciò non giustifica la resa. Tanto più che il nostro partner a Pechino è la China National Petroleum Corporation, che è praticamente il governo. Ci può aprire delle porte, ma bisogna crederci. Altro tema è l’asset management da sviluppare negli Stati Uniti, per svoltare nel settore».

In ogni caso nel piano parlate di un ritorno al debito per le Generali dopo che per anni il tema è stato quello di ridurlo. Non è contraddittorio?

«Parliamo di una leva da usare solo nel caso di un’operazione che crei davvero valore. Al momento la leva del Leone è del 20%, Allianz la usa al 25%, Axa al 30%. Proponiamo di coprire al massimo una parte del gap con Allianz. Invito alla tranquillità: non ci copriremo di debiti».

Il costo del rischio per Allianz, però, è diverso.

«Non metteremo mai a rischio il rating della compagnia».

Servirà un aumento di capitale?

«Non è sul tavolo».

Un vostro sostenitore come Leonardo Del Vecchio si aspetta un’acquisizione “trasformazionale”. Sarà accontentato?

«C’è una predisposizione a crescere ma le acquisizioni importanti capitano quando ci sono le occasioni. Ppf nei fatti è stata l’ultima grande operazione e risale al 2007: parliamo di 5 miliardi di valore. Poi noi siamo riusciti a integrarla. La vera chiave di un’acquisizione è questa: integrare. E non è facile. Per questo al momento è impossibile parlare di possibili target».

E allora come si spiega la forte critica che fate all’attuale dirigenza del Leone di non avere avuto coraggio nelle acquisizioni?

«Basta passarle in rassegna: Grecia e Malesia sono mercati minori da cui Axa voleva uscire. In Portogallo abbiamo preso una buona compagnia, ma in una economia che non è certamente tra le principali del continente. Invece non siamo riusciti a comprare le attività di Aviva in Polonia. Ma la verità è che il budget per le fusioni e le acquisizioni non è un obbligo o una prescrizione del medico. Il gioco deve valere la candela. Piuttosto guarderei ad altro».

A che cosa?

«Alla performance: in Italia il risultato operativo non cresce da 4 anni, sulla parte Danni perdiamo quote di mercato e c’è un buco di profittabilità importante rispetto ad Allianz. Io avrei messo a posto la macchina prima di comprare qualcos’altro di importante in Italia».

Lei ora frena sulle acquisizioni, ma ad esse lega tra il 3 e il 4% della crescita annua maggiore al 14% che viene prospettata nel piano. Quindi pensate di crescere meno di quanto annunciato?

«La crescita è dovuta in parte al recupero di inefficienze, in parte alla riorganizzazione ed all’espansione organica ed in parte all’M&A. Dal momento che si formano rilevanti disponibilità di liquidità andranno bene investite».

Parliamo dei tagli. A Trieste sono in allarme, visto che raddoppiando i risparmi previsti da Donnet potreste intervenire sulle funzioni centrali. Hanno ragione a tremare?

«C’è modo e modo di fare le cose. I risparmi si fanno tagliando gli sprechi, mettendo in concorrenza i fornitori e, per quanto riguarda il personale, organizzando meglio. Chi non ci ama ha diffuso notizie allarmistiche sperando di coglierne il frutto».

E Trieste?

«Sarà sempre più centrale perché a Trieste c’è l’anima della compagnia. La nostra vuole essere la compagnia di gente che ci crede, non una compagnia di mercenari. La scelta di dirigenti all’esterno deve essere fatta solo dopo una verifica di carenze all’interno».

Su digitale e information technology il piano Donnet non basta?

«No, perché si basa sulla collaborazione esclusiva con un vendor, che crea un collo di bottiglia pazzesco, un vero errore. È da rivedere urgentemente. I sistemi che gestiscono il business sono una parte fondamentale delle professionalità che si devono avere in casa per poi sviluppare prodotti e servizi».

Perché quando era uno dei tre dirigenti apicali del gruppo non ha mai fatto presente le sue osservazioni a Donnet?

«In Generali non c’è una grande cultura della discussione. Anzi: è abbastanza limitata».

Non solo: fino a inizio marzo lei presentava ai suoi ex colleghi il piano firmato Donnet. Non c’è contraddizione?

«Quando uno è responsabile di qualcosa in una compagnia deve fare il suo dovere nel rispetto della propria funzione. Il mio, come capo del Centro Est-Europa, era di mantenere o migliorare la performance delle Generali e garantire il funzionamento della macchina. Inclusa la spiegazione della strategia di gruppo».

Come si è sentito quando il cda ha deciso il suo licenziamento?

«Avevo chiesto di andare in aspettativa non retribuita, cosa che è stata respinta. Poi sono stato sospeso e successivamente mi è arrivata una notifica di licenziamento, pubblicata sui giornali di lunedì prima che mi fosse notificata il venerdì. I miei avvocati stanno studiando i passi per contestarla. In più ho dato loro mandato di proseguire con un’azione per danno reputazionale di rilievo non indifferente. Sicuramente non è stato elegante usare il mio licenziamento per avvantaggiarsi in questa gara. Resto un uomo delle Generali che ha sempre lavorato per la compagnia e oggi sono parte di un progetto sostenuto da un grande azionista che, fino a poco tempo fa, era il vicepresidente vicario della società. L’idea è sempre stata quella di partecipare alla partita e, in caso di sconfitta, dimettermi. Cosa che, se non mi fossi candidato, avrei fatto comunque entro maggio».

I proxy advisor, che consigliano i fondi sul voto, non l’hanno seguita: buoni numeri ma irrealizzabili, dicono. Deluso?

«Il tema è un altro. Hanno creduto di aver davanti la lista del consiglio, ma hanno preso una gigantesca cantonata: quella è la lista di Mediobanca. Si sono bevuti l’altra versione. Questo è il vero punto».

Ma non si fidano dell’esecuzione. Cosa risponde?

«Sono arrivato a guidare l’Austria quando c’erano i dipendenti in sciopero. Ho tagliato costi, rimesso a posto la parte tecnica, in pochi anni ho fatto una ristrutturazione informatica. Lo stesso ho fatto in Repubblica Ceca. È stato tosto ma anche i sindacalisti alla fine, mi hanno seguito. La verità è che alle Generali fino ad adesso molti problemi sono stati messi sotto il tappeto. In Svizzera, per dire, han dovuto fare un aumento di capitale per un portafoglio Vita di cui sembrava nessuno si fosse accorto prima. Bisogna impostare il lavoro in modo professionale e sostenibile e muovere la performance verso il pieno potenziale, puntando in un primo momento sul ramo Danni dove per noi c’è maggior potenziale di crescita».

Siamo entrati nei giorni decisivi. I proxy si sono espressi: i fondi saranno decisivi o credete di poter vincere?

«Siamo testa a testa. Quelle dei proxy sono indicazioni, non decisioni. E non saranno solo i fondi a decidere la partita». –

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