La rivoluzione digitale del prete di Trieste che porta le messe nelle case grazie al web

TRIESTE. Una volta bastava un pallone, anche un leggero “Super Tele” di plastica, per calamitare i ragazzi verso la parrocchia. Lo portava astutamente il prete, lasciava che i giovani si sfogassero per un paio d’ore sul campetto dell’oratorio e poi andava a ripigliarseli. «Adunanza, adunanza fioi», gridava con voce baritonale quasi mezzo secolo fa sul colle di Servola, don Giuseppe Dreossi (detto zio Pippo), molto vicino per la sua aitante figura all’azzeccato protagonista del “Prete bello” di Goffredo Parise.
Molti riuscivano a filarsela, i più diligenti si fermavano per le preghiere del pomeriggio condite da riflessioni sui valori del cristianesimo. Altri tempi. Oggi il compito di parroci è più arduo e complesso, il mondo è cambiato in fretta. Questo è uno dei motivi per cui tra il 2018 e il 2019 il vescovo di Trieste, monsignor Giampaolo Crepaldi, ha dato vita a una sorta di rivoluzione nella parrocchie triestine per puntare su sacerdoti più giovani e dinamici.
Don Valerio Muschi, 45 anni, parroco della chiesa Madonna del Mare di piazzale Rosmini, è uno di questi. Dopo dieci anni a San Giovanni, altrettanti a Santa Rita, eccolo tra San Vito e Campi Elisi da un anno e mezzo. Con il digitale ha accorciato le distanze dai parrocchiani soprattutto in tempo di pandemia. Don Valerio è anche delegato diocesano per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso e membro del consiglio pastorale diocesano. Un sacerdote “tecnologico” ma allo stesso anche vecchia maniera a cui piace stare sempre in mezzo alla gente. Ha sempre un sorriso per tutti.
Don Valerio, che storia è la sua?
Sono nato a Trieste, in fondo a Viale XX Settembre. Mia madre era un’insegnante e mio padre un vetrinista ma poi si è messo a vendere libri usati in via Gatteri. Un’infanzia normale condivisa con due fratelli maschi più piccoli. Ho fatto le magistrali al Carducci dove c’era la possibilità di fare anche un’ora facoltativa di pianoforte grazie alla quale sono entrato al Conservatorio Tartini dove ho studiato l’organo, il mio primo amore. L’arte è una passione ereditata in famiglia, mio nonno materno era il noto etno-musicologo Claudio Noliani. Ed era mio parente anche Diego de Henriquez, il collezionista di cimeli. Il nostro cognome Muschi dovrebbe essere di origine boema, si scriveva con la K finale. Verso i sedici anni suonavo l’organo nella chiesa di Sant’Antonio vecchio, lì sono entrato nel mondo parrocchiale, mi sono fatto i primi amici, io che ero piuttosto introverso, e ho preso una cotta per una ragazza che mi piaceva.
Nacque una storia d’amore?
No, non accadde nulla tra noi, in cambio cominciai a frequentare l’Azione Cattolica. E prima di compiere i 18 anni una sera ho sentito la chiamata di Dio, quel giorno capii cosa sarei diventato. Una folgorazione. Finite le magistrali, lasciai l’idea di iscrivermi a Ingegneria per intraprendere un’altra strada che mi portò in Seminario a Udine. Da prete, facendo il cappellano, ho proseguito la formazione con un corso sull’evangelizzazione continuando pure il Conservatorio. Mi sono diplomato che ero parroco.
Di questi tempi la parrocchia è ancora un punto di riferimento per il rione?
Direi proprio di sì, dipende poi dai punti di vista. In chiesa ci va meno gente ma è un cristianesimo più elettivo, più consapevole. Le persone in parrocchia sono conquistate anche dalla cordialità e da quella apertura mentale che ti consente di non apparire come un marziano. La responsabilità del parroco è una responsabilità di servizio. C’è gente che viene per confessarsi, per fare un cammino spirituale o per chiedere aiuto ma anche solo per parlare e stare in compagnia.
Ma già prima della pandemia era aumentato il numero dei bisognosi; in parrocchia arriva varia umanità a chiedere aiuto. Indigenti, migranti, tossicodipendenti...
Purtroppo i poveri sono in aumento e le offerte sono calate anche perché non si poteva venire in chiesa. Si cerca comunque di dare una mano a tutti. Tuttavia non siamo un juke-box nè un dispenser. Accoglienza sì ma non immediata, va invece valutata insieme a chi la chiede per trovare un percorso condiviso. L’accoglienza del soldino in mano non porta a nulla.
Ha comunque la fortuna di essere finito in un quartiere residenziale...
Piano. È un rione a due marce, verso il colle di San Vito c’è la zona residenziale, e sotto, verso Campi Elisi, ci sono tante case popolari. C’è un muro invisibile che divide queste due realtà. La chiesa che sta nel mezzo idealmente è un ponte che le unisce... Qui vengono a pregare sia ricchi che poveri, senza distinzione.
Le parrocchie sono state costrette ad affidarsi ai social per attrarre giovani e nuovi fedeli. Scelta inevitabile?.
La comunicazione e l’uso di un linguaggio vicino ai giovani oggi sono fondamentali. Usiamo Whatsapp, il sito sul web, piattaforme come Zoom. Siamo stati tra le prime parrocchie, durante il lockdown, a trasmettere le messe in streaming. Ma la comunicazione non dipende solo dai social o dalla rete ma anche dall’atteggiamento. Essere sacerdote non vuol dire collocarsi un gradino sopra gli altri. Mi piace pensare che siamo tutti sulla stessa barca, siamo una comunità di persone e io non sono certo il capitano, semmai il nostromo.
I social però nascondono anche molte insidie, basta leggere le cronache...
Dipende dall’uso che se ne fa. Sono come delle stanze chiuse, basta aprire quelle giuste. Se apri il sito della parrocchia, per esempio, ti trovi in diretta con la chiesa 24 ore su 24.
Rispetto a una volta, social a parte, è più difficile conquistare i giovani, oggi ci sono mille esche, mille distrazioni...
Certo, non ci sono più i numeri del passato quando il parroco ti dava una tesserina a cui metteva i bollini per le presenze a messa grazie ai quali si poteva poi andare al cinema. Ma ci difendiamo. Qui a giugno abbiamo riqualificato i campetti di calcio, volley e basket e tutta l’estate erano pieni di ragazzi che giocavano. E una volta alla settimana c’era la messa all’aperto.
La sua comunità come ha vissuto questo periodo buio della pandemia?
Un periodo che va affrontato senza sterili lamentele, va visto anche come un’opportunità. Abbiamo avuto l’occasione di esplorare meglio il mondo digitale grazie al quale abbiamo raggiunto di sera persone che a quell’ora non sarebbero venute ai nostri incontri. Abbiamo anche riscoperto la nostra parte solidale. Un fruttivendolo della zona ha raccolto borse di verdure e le ha portate in parrocchia dove noi fungiamo da centro di smistamento. La spesa la portiamo noi nelle case, armati di guanti e mascherine.
Restano però i lati negativi di questa sorta di “peste”...
Certo, è innegabile. Abbiamo detto addio a liturgie, feste, incontri, pranzi. Gli anziani sono stati fortemente penalizzati, anche perché hanno meno mezzi tecnologici. Ma anche ai giovani sono mancate le occasioni per le relazioni sociali. L’isolamento causa depressione. E poi bisogna fare i conti con la paura. Esistono i negazionisti ma anche chi non viene più in chiesa per il timore di contagiarsi. Siamo allora entrati noi nelle case a portare la messa con il web.
Come crede che saremo dopo, quando sarà tutto finito: ancora più individualisti o persone migliori?
Difficile fare adesso previsioni, sicuramente riscopriremo il piacere di un abbraccio e dello stare insieme.
Ha visto il film di Nanni Moretti “La messa è finita”? Ci sono davvero situazioni in cui un sacerdote si sente solo e impotente?
Sì ho visto quel film. Il pericolo di perdere il senso della propria vita di cristiano e di prete è fondato. La solitudine del sacerdote non è un problema ma una realtà e un’opportunità che favorisce il percorso spirituale e lo rende spendibile per gli altri.
Ma non è stato mai preso da un momento di scoramento in cui ha pensato di mollare tutto?
Certo che ho passato momenti di crisi, magari dopo un fallimento accade di farsi delle domande ma sono sempre stato aiutato da altri sacerdoti e ho trovato delle risposte. È come in un matrimonio, andare in cerca di Dio è faticoso, implica fedeltà.
Tornando sul tema dell’accoglienza, anni fa lei è stato il protagonista di una singolare esperienza, quasi un esperimento. Ce la racconta?
Quella mia esperienza è del 2008 e mi ha segnato. Per una settimana ho fatto il pellegrino senza cellulare, senza soldi e senza mai rivelare la mia identità e il mio ruolo. Sono andato a piedi da Padova a Mantova, chiedendo ogni sera ospitalità in nome di Gesù Cristo crocifisso prima bussando alla porta delle parrocchie e poi ad altre strutture. Non tutti mi hanno accolto, anzi alcuni miei colleghi sacerdoti mi hanno trattato come un pezzente. Mi hanno chiuso la porta in faccia senza neanche starmi ad ascoltare due minuti. Eravamo in due, non chiedevamo danaro ma solo un posto per dormire e un po’ di cibo. L’idea era quella di metterci nelle mani della Provvidenza. E ha funzionato! Diversi ci hanno accolto. Chi ci ha rifiutati ha perso l’opportunità di fare del bene. Sono ancora dispiaciuto per loro, non per me. Per contro abbiamo trovato stranieri disposti a darci un passaggio.
Per concludere in maniera leggera Zucchero Fornaciari sembra avere un’idea distorta della Chiesa. Conosce il refrain di quella canzone che fa “solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo stress e dall’Azione Cattolica”?
Conosco il brano. Innanzitutto farei uuuuuuuu come nel ritornello. Personalmente grazie all’Azione Cattolica ho trovato me stesso e la gioia di essere al mondo. Direi a Zucchero che è un falso cristianesimo qualcosa che si contrappone alla realtà del sesso e delle altre cose concrete che rendono bella la vita. Una visione sbagliata, si basa su vecchi pregiudizi. La Chiesa è un luogo in cui si sta bene, non siamo gente cui piace darsi la zappa sui piedi.
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