La rivelazione della Cia: «Tito non era jugoslavo»
BELGRADO. C’è un Paese che, forse più dell’Italia, adora le teorie del complotto. Anzi, ce ne sono tanti, quasi tutti quelli nati dalla dissoluzione della Jugoslavia, dove basta una piccola scintilla a rinfocolare leggende metropolitane e speculazioni popolari mai provate, ma neanche mai accantonate. Speculazioni che, perfino negli anni d’oro della Jugoslavia, non avevano risparmiato neppure Tito, padre-padrone della patria socialista.
«Che strano accento», mormoravano in molti ascoltando il Maresciallo. «È un russo», assicurò il suo acerrimo avversario, il leader dei cetnici Draza Mihailovic, dopo aver incontrato Josip Broz nel 1941. Tutto per colpa della pronuncia di Tito, che a tanti ricordava quella di uno straniero, capace di parlare fluentemente il serbo-croato, ma non di nascondere del tutto le proprie origini. Fantasie? Non proprio, almeno secondo un articolo, redatto da analisti della National Security Agency americana e pubblicato poco prima della morte di Tito su un magazine a uso interno, il “Cryptologic Spectrum”. Articolo dichiarato “unclassified”, mesi fa reso pubblico dalla Nsa, poi scoperto nei giorni scorsi dai media balcanici. Che hanno sollevato un polverone.
«Il presidente Tito è veramente uno jugoslavo?». Domanda non campata in aria, per gli anonimi redattori del rapporto «fonologico e morfologico» sul modo di parlare del Maresciallo. Articolo che parte da un presupposto. Tito «sembra parlare serbo-croato con un accento straniero». Accento strano, «non giustificabile con l’età e con la potenziale perdita di facoltà» mentali, bensì forse il massimo risultato per uno straniero che camuffa la sua origine. Camuffata bene, ma non a sufficienza, data la presenza nei discorsi di Tito di «caratteristiche che normalmente non appaiono nella pronuncia» di un cosiddetto “native speaker”, nato in Jugoslavia. Quali? L’analisi parte da lontano, spiegando la diffusione, ma solo in russo e polacco, della «palatalizzazione attiva», un processo che porta a pronunciare certe consonanti sollevando la punta della «lingua verso il palato duro». «Quando chi parla linguaggi pesantemente palatalizzati», come il russo, il polacco e il bielorusso, «studia una lingua straniera, ha la tendenza a continuare» a palatalizzare anche nel nuovo idioma. E sarebbe proprio stato questo il caso di Josip Broz che, secondo la Nsa, parlava serbo-croato proprio come avrebbe fatto un uomo nato a Mosca, a Varsavia o a Minsk.
Un altro indizio. Gli errori che il Maresciallo faceva durante i discorsi pubblici. «Sa domacinama» (con gli ospiti) invece che il corretto «sa domacinima», oppure «izmedju dvije zemalja» al posto di «izmedju dvije zemlje» (tra due Paesi). Tra due Paesi, la Jugoslavia e quell’ignota nazione straniera che, secondo la Nsa, avrebbe dato i natali al “vero” Tito, divenuto l’uomo forte di Belgrado partendo dalla Polonia o dalla Russia, dopo aver assunto «l’identità di Tito» magari negli Anni Trenta, quando Josip Broz «conduceva una vita clandestina» all’estero ed era ancora «relativamente poco conosciuto» e quindi sostituibile.
I dubbi sulle teorie Usa sono però forti. Tito era nato in un’area dove si parla un dialetto caicavico, potenziale “causa” dello strano accento. Agli inizi era inoltre un semplice fabbro senza formazione, possibile spiegazione dei suoi errori grammaticali. Ma la teoria Usa rimane comunque stuzzicante, «anche se poco importa» da dove venisse Tito, visti i suoi successi interni ed esteri dopo il 1941, ammetteva alla fine Washington. Ma i sospetti sulle sue origini non sono tuttavia così banali, perché «il semplice fatto che Tito probabilmente non è il Tito nato nel 1892» a Kumrovec ma uno “straniero” potrebbe spiegare «la sua imparzialità e il conseguente successo nel governare i differenti gruppi etnici in Jugoslavia». Rimane da vedere, scrivevano gli analisti dell’Nsa, se i suoi successori avranno la stessa fortuna. Almeno su questo, se non sull’origine di Tito, la risposta l’ha poi tristemente data la storia.
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