La richiesta d’aiuto del “popolo” di via Udine: «La nostra vita è qui. Che faremo se chiude?»

Viaggio nel Centro diurno che il Comune di Trieste vuole stoppare, dove le giornate sono tutte uguali e le amicizie durano per la vita

TRIESTE Verso ora di pranzo l’afa picchia all’interno del centro diurno per persone bisognose di via Udine. Si tratta della struttura gestita dalla Comunità di San Martino al Campo che, stando a quanto annunciato dall’amministrazione comunale negli scorsi giorni, dal primo luglio dovrebbe chiudere per cedere il posto a un non meglio definito «punto giovani». La televisione trasmette un vecchio western che attira l’attenzione sia di giovani sia di anziani. Qualcuno, vinto dal torpore estivo, si abbandona a un pisolino. Qualcun altro pulisce i tavoli dalle briciole della colazione, assieme al personale del centro. Altri operatori stanno al computer, sbrigano pratiche.

Chiude il centro diurno per clochard e migranti a Trieste: «Sarà un punto giovani»
Lasorte Trieste 19/06/19 - Via Udine, Centro diurno


Agostino – si fa chiamare così – è un uomo sulla cinquantina. È italiano, originario di una regione limitrofa, e frequenta il centro da quando è arrivato a Trieste, poco meno di dieci anni fa. Viene qui ogni giorno, specie adesso che «fa caldo - dice -. Non è che posso andare a camminare tanto per far consumare le suole. Le persone come me e come tante altre arrivano qui per necessità. Io ad esempio ho avuto un problema con il lavoro e ho dovuto fare delle scelte di vita. Siamo tanti. Qui servirebbe più spazio, non certo di meno».



Per questa struttura passa quotidianamente un centinaio di persone, in media. D’inverno, quando fuori fa freddo, si è arrivati a picchi di 180 presenze contemporaneamente. La routine è sempre la stessa, 365 giorni l’anno. Alle nove aprono le porte. Alle dieci si fa colazione. Poi ci si fa la doccia, si legge (la biblioteca del centro è ben fornita) oppure si guarda la televisione. C’è anche un centro di raccolta per vestiti usati, da distribuire a chi ne ha bisogno.

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sterle trieste crntro di prima accoglienza san martino al campo suor gaetana dellantonio


Verso l’ora di pranzo i più si dirigono verso le mense per i poveri, come quella dei frati di Montuzza. Alle 16 il centro diurno chiude e ciascuno si prepara a trascorrere la sera e la notte. Alcuni andranno all’Help center della stazione ferroviaria e poi otterranno un posto in dormitorio. Altri chissà.

Prosegue Agostino: «Dal momento che ho i capelli bianchi e indosso comunque una camicia, posso dare un’impressione di autorevolezza ai giovani che arrivano qui. Cerco pertanto di aiutarli, di insegnare loro come funziona. Non è sempre facile. A volte non ci si capisce. Ci sono certi ragazzi che arrivano dopo aver camminato 4mila chilometri e hanno i piedi così gonfi che non riescono a infilarsi le scarpe. Hanno così fame che mangiano sei panini di fila».

Si avvicinano Tareq e Nassir, che avranno meno di trent’anni. Raccontano di essere arrivati quattro anni fa, rispettivamente dall’Afghanistan e dal Pakistan. Hanno concluso il percorso nel circuito d’accoglienza cittadino e ottenuto i documenti per risiedere legalmente in Italia. Solo che manca il lavoro. «Una volta lavoravo con una macchina, e mi sono fatto male, più di dieci punti», dice Nassir, mostrando una profonda cicatrice sul ginocchio sinistro e altre simili sul braccio. «Adesso non c’è lavoro neanche per gli italiani - prosegue -. Abbiamo saputo che questo centro tra dieci giorni chiuderà. Dove andremo? Dove andrà questa gente? Dove farà la doccia? Dove si cambierà i vestiti? Non si sa. Non si capisce niente. Tutti sono nervosi».

Pur non essendo nervoso, domande analoghe fa anche Tahir, che ha 56 anni e viene dal Kosovo. «Dove andiamo daluglio? E i mesi successivi? Verrà l’inverno. Staremo in strada? Io ho già fatto la strada, in Austria, nel 2001. “Sprichst du Deutsch”? Parli tedesco?». Conosce almeno quattro lingue, Tahir. In Austria ha fatto il venditore ambulante, tra le altre cose. Dopo essersi stabilito a Trieste, ha lavorato per anni nel settore delle pulizie. Come tanti, ha perso il lavoro. «Vorrei una casa ma dove trovo 400 euro al mese per pagare l’affitto?». Grazie all’associazione di volontariato socio-sanitario Don Kisciotte, che collabora con il centro diurno, ha accesso alle cure mediche. Sorride, anche con gli occhi, e indica verso l’alto: «Lui è grande», dice.

Accanto a Tahir c’è Ilie, che viene dalla Romania e di anni ne ha 60. I due sono «amici, come fratelli». Ilie esibisce un grande zaino verde militare, che contiene tutti i suoi averi. «Pesa 26 chili - assicura -. Dentro ho le cose per dormire. Se qua chiude, dovrò portarlo sempre. È tanto pesante». Si chiacchiera ancora un po’ del più e del meno, rollando una sigaretta di tabacco. Prima di uscire a fumare, Ilie scherza con Tahir: «Mi guardi lo zaino mentre sono fuori? Che ancora non mi rubino qualcosa». I due si mettono a ridere. Non si capisce se l’ironia nasca dalla consapevolezza di avere poco da farsi rubare o se vogliano invece prendere in giro i pregiudizi che spesso pesano sulle persone come loro, straniere, senza fissa dimora. —


 

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