La ricetta “lenta” di Carlo Petrini: «Nel mercato c’è l’identità Trieste non lo abbandoni»

TRIESTE. «Una grande città come Trieste non può permettersi di abbandonare il piccolo commercio e il suo storico mercato, perché è lì che possono trovare nuove opportunità i giovani ed è lì che risiede l’identità del territorio». Carlo Petrini, fondatore e presidente dell’associazione Slow Food, è uno che di cibo, cultura, società e territorio, e della relazione che li lega, ne sa parecchio: ci ha costruito sopra una vita, una carriera, uno stile.
Gastronomo, sociologo, scrittore, attivista convinto del valore del cibo e del modo in cui lo si produce, lo si consuma e lo si conosce, Petrini entra nel vivace dibattito pubblico che da giorni coinvolge la città e il futuro del Mercato coperto. Non lo fa ovviamente immergendosi nella polemica politica o nei dettagli tecnici di un eventuale intervento di recupero, ma riflettendo sul ruolo che i mercati possono e devono ricoprire nei centri storici delle città, con benefici sul fronte economico e occupazionale, ma anche culturale, sociale, turistico.
Da Budapest a Madrid, da Firenze a Valencia, da Londra a Siviglia, in tutta Europa la riqualificazione e valorizzazione dei mercati storici, con la loro esplosione di profumi e colori, tipicità e folclore, è stata considerata uno strumento per vivere le città e presentarle ai turisti in modo nuovo. A Trieste se ne parta da una vita, ma non si conclude. E la responsabilità, secondo Petrini, è della politica, «che non può aspettare che arrivi il salvatore della patria, il grande investitore, l’attrattore che porta i soldi e occupa gli spazi: le Istituzioni non devono attendere progetti, ma pensarli».
Carlo Petrini, in che modo la politica è responsabile?
«Lo è perché si deve assumere l’onere di scegliere e di considerare questo tema come una priorità. Qui si parla di politica in senso alto, quella che deve individuare nuovi paradigmi, che richiedono capacità di visione. Le Istituzioni devono porsi come garanti della comunità e di un nuovo tipo di rapporto tra produzione e distribuzione».
Come devono farlo?
«Viviamo una fase storica difficile e unica. Questa terribile crisi pandemica ci insegna che dobbiamo davvero cambiare rotta. La pandemia ha riempito le tasche della grande distribuzione e dei colossi dell’online, come Amazon, che hanno fatto ricchi affari, mentre ha devastato il piccolo commercio, che già da tempo viene soffocato dalle logiche dei prezzi imposte dai grandi. È la politica, sono le Istituzioni che devono scegliere con chi stare, chi supportare.
Come dovrebbero essere sfruttati i mercati in questo senso?
«I mercati sono i luoghi ideali per consentire alle piccole realtà agricole del territorio di avere spazi per la vendita diretta dei loro prodotti. Ci sono tantissimi giovani che, complice la crisi occupazionale, negli ultimi anni sono tornati alla terra. Si mettono in gioco, generosi, e costruiscono cooperative e piccole realtà di valore e qualità. E noi non li aiutiamo? Diamo spazio solo ai supermercati? Quei giovani devono avere la possibilità di vendere direttamente i loro prodotti: si dia a loro quegli spazi».
Ma concretamente come si deve procedere?
«Ci sono mille esempi, dai Mercati della terra di Slow Food a Campagna Amica di Coldiretti. Sono progetti che funzionano, strade che vanno percorse prima di bussare alla porta della grande distribuzione, che ha avuto sin troppi benefici in questi anni. È una strada più difficile, ma spetta al pubblico farsi carico di queste decisioni».
Ancora una volta, è una questione di scelte.
«Certo. Sostenere il commercio di prossimità deve essere considerato dalla politica una battaglia giusta, necessaria. Non si possono più difendere gli interessi di pochi colossi a discapito dei piccoli: è intollerabile. E poi un Paese come il nostro non può permettersi di perdere il suo rapporto con la terra, la sua identità più alta e nobile».
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