La ragazzina suicida e la pazienza che abbiamo perduto
di Pier Aldo Rovatti
Eppure dobbiamo cercare di dire qualcosa. Di fronte al suicidio di una ragazzina di 12 anni (Trieste, 10 settembre), un fatto estremo e sconvolgente, l’invito al pudore e alla discrezione è certo doveroso. Bisognerebbe usare ogni cautela prima di affrettarsi a un commento. Ma, una volta che una notizia come questa arriva ai media, risulta difficile tamponarne gli effetti e arrestarne il corso. Tale è la società in cui oggi viviamo, una società spettacolare e cinica. Al massimo possiamo cercare di attutire i toni e tradurre l’impatto emotivo in una riflessione. La discrezione del silenzio è una virtù, non sempre però possiamo applicarla, e mai interamente. In questo caso essa rischierebbe di confinare con l’assenza di parole, con l’ammissione di non sapere che cosa dire.
È proprio così? Davvero non abbiamo niente da dire al di là dello sconcerto, al di là del dubbio che non conosciamo abbastanza il caso particolare, al di là della constatazione che un evento come questo non capita quasi mai, al di là della sincera confessione che qui si lambisce una zona misteriosa e forse insondabile dell’esistere?
E poi: perché dovrebbero essere gli psichiatri e gli psicologi, in quanto esperti, quelli che hanno il potere di orientarci, quando questo ruolo spetta evidentemente a tutti coloro che partecipano responsabilmente alla società attuale e di conseguenza sono investiti del compito di una riflessione critica? Se vogliamo contrastare lo spietato fascio di luce che proviene dai media, non basta delegare la parola ai cosiddetti tecnici della psiche, non importa quanto bravi o scrupolosi: è necessario tentare di prendere la parola ciascuno in prima persona.
Per parte mia propongo di riflettere su una cultura, ormai generalizzata e dominante, la quale non conosce più la pazienza e pratica solo l’ansia della prestazione, l’impazienza del risultato: una cultura che dobbiamo mettere apertamente sul banco degli accusati perché essa è diventata una specie di costrizione sociale che massacra gli individui fin da piccoli (e oggi chi ha 12 anni non è più tanto piccolo).
Questa cultura, che con risibile sobrietà english viene chiamata short termism, e che la nosografia psicologica ha subito tradotto in “sindrome da breve termine”, cioè la nostra cultura della fretta, è una cultura colpevole, e tutti noi siamo colpevoli nella misura in cui la assecondiamo e giorno dopo giorno letteralmente contribuiamo a edificarla.
Restare attoniti, o anche solo increduli, alla notizia del drammatico suicidio di una ragazzina che si getta nel vuoto il primo giorno di scuola dichiarando di “odiare” scuola e famiglia, non serve a nulla, è una pura e semplice dichiarazione di impotenza. Servirebbe, invece, che ciascuno di noi, nessuno escluso, interrogasse se stesso e si chiedesse quanta pazienza ha dedicato ai propri figli e alle persone con cui vive o che gli stanno vicino. Se lo facessimo, scopriremmo un pauroso deficit di attenzione nello sguardo che rivolgiamo al prossimo.
La realtà è che siamo trascinati dall’ansia dell’impazienza e sempre meno abbiamo la capacità di fermare la macchina frenetica del quotidiano per rivolgere a nostro figlio uno sguardo meno frettoloso e più pensoso. Ma come? Gli diamo tutto, gli riempiamo i pomeriggi di mille attività, gli stiamo addosso sul cibo, sui gesti e sulle espressioni che usa, gli forniamo i gadget tecnologici che desidera. Tuttavia molto spesso evitiamo di “guardarlo”, tanto – si sa – questi ragazzi parlano poco in casa e, se lo fanno, ricevono un ascolto stereotipato o distratto: d’altronde – ci diciamo – essi sono degli oggetti misteriosi. Così, molto spesso, rinunciamo a capirli, non abbiamo la pazienza che sarebbe necessaria per farlo, tiriamo via perché la vita è dura e stressante, non lascia intervalli.
E che esempio diamo, che cosa più o meno consapevolmente insegniamo loro? Gli insegniamo precisamente a non avere pazienza. Loro ci imitano e così apprendono la medesima ansia di impazienza che regola, ormai automaticamente, le nostre vite. Li educhiamo all’impazienza, gli trasmettiamo questa nostra colpevole ansia, per poi scoprire ogni tanto, e magari drammaticamente, che sono malati di impazienza. Allora – se non è troppo tardi – ci affidiamo agli psicologi, magari per sentirci dire che loro non ne capiscono granché.
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