La porta girevole delle nostre regole
TRIESTE Le colorazioni delle zone dettano gli attuali modi di vivere: ci dicono cosa possiamo fare e cosa è proibito. Regole sociali che cambiano secondo la curva dei contagi e gli indici di pericolosità, tenendoci in sospeso. L’immagine che viene alla mente potrebbe essere quella di una “porta girevole” da cui si entra e si esce. Aperture e chiusure si alternano infatti attraverso questa specie di ingresso mobile con effetti importanti sulle pratiche quotidiane di ciascuno: disagi palpabili per i nostri movimenti ma anche conseguenti disagi psichici.
Siamo tutti stanchi, ci rassegniamo all’emergenza, non vediamo l’ora che arrivi finalmente una liberatoria. Ci affidiamo alle vaccinazioni, pur non nascondendoci i ritardi. Cerchiamo di chiudere le orecchie al canto delle sirene demagogiche, ma non possiamo essere del tutto ciechi di fronte agli episodi di rabbia sociale. E intanto la porta gira, apre e chiude, dobbiamo passarci attraverso, pena ulteriori conseguenze economiche, anche se i problemi materiali prodotti da questo andamento a singhiozzo non sfuggono a nessuno. La metafora della porta girevole – metafora fino a un certo punto – viene spesso usata in una maniera positiva: allora perché in questo caso il sembiante positivo viene sottovalutato e pare irrilevante? La risposta arriva subito: c’è di mezzo la questione della libertà del nostro agire comune.
La porta girevole è un’immagine che sicuramente appartiene al bagaglio del pensiero critico, quell’atteggiamento culturale che oggi fa fatica a tenere la scena, quasi sempre scavalcato da idee di verità prêt-à-porter, alla mano e facili da adoperare. La porta girevole non ha niente a che fare con il pensiero dominante che funziona invece per esclusione, o dentro o fuori, o sì o no, senza possibilità di alternative o connessioni. Una porta si apre e poi si chiude: anzi, se restasse aperta, bisognerebbe chiuderla, poiché tra l’idea ovvia di porta e l’esigenza di considerarla chiusa c’è quasi un’identità, la porta deve essere chiusa. È avvenuta una specie di metamorfosi del senso che diamo adesso, normalmente, alla porta. Prima aveva soprattutto il significato di un’entrata, ora la consideriamo quasi sempre come qualcosa da chiudere.
La porta girevole, lo dice la parola stessa, apre e chiude nello stesso momento: produce l’idea di quel movimento non bloccato per il quale il dentro e il fuori fanno parte di una medesima esperienza. Non è difficile accorgersi, anche per chi ha poca confidenza con la filosofia, che l’esperienza di questo doppio movimento è molto importante per noi, soprattutto considerando le restrizioni alle quali è attualmente sottoposto il pensiero critico: ci permette, infatti, di differenziarci da coloro che si sentono “fuori” e da lì guardano ciò che avviene “dentro”, e – facendo un passo in più in termini di pensiero critico – ci porta a rivolgere l’attenzione verso noi stessi e a “scoprire” con qualche inquietudine che il fuori e il dentro giocano la stessa partita in ciascuno (“in interiore homine”, diceva già Agostino tanti secoli or sono). Insomma, questa porta girevole permette alla soggettività di ognuno di noi di non bloccarsi in una posizione fissa, penalizzante o gratificante.
Riusciamo a mettere in contatto la sua faccia positiva con il disagio di dover adattare le regole della vita quotidiana ai ritmi dettati dalla pandemia? Siamo perplessi perché vorremmo che non ci fossero regole restrittive, ma anche perché – all’opposto – ogni tanto ci pare che sarebbe meglio che le chiusure restassero ben definite e non ci fosse di continuo la necessità di una “ripartenza”; per le scuole ad esempio, ma poi per tutte le attività commerciali penalizzate da chiusure considerate eccessive o poco ragionevoli.
Ci capita spesso di ascoltare un’esclamazione come la seguente: “Meglio chiudere tutto per un periodo ben determinato, come si è fatto altrove”. È una protesta comprensibile: la porta girevole manovrata dalle istituzioni statali produce infatti, con evidenza, l’affanno di una riorganizzazione gravosa in tutti i settori della vita sociale. Ma davvero preferiremmo una porta che sta chiusa? E che, con altrettanta rigidità, si riapre il tal giorno? Certo, vorremmo essere noi i manovratori di questa porta. Ma potremmo anche chiederci se la mobilità che (forse) desideriamo è un gesto, uno stile di vita che ci appartiene veramente e che cerchiamo di realizzare nelle nostre esistenze. La risposta non è così ovvia né facile da dare. Quello che comunque sembra condivisibile, seppure non sempre consapevole, è il fatto che l’idea che il dentro e il fuori, così come l’aperto e il chiuso, appartengano criticamente a quel pensiero di cui abbiamo bisogno.
Mi pare che solo a questa condizione potremmo esprimere in modo produttivo (anche politicamente) le nostre riserve sulla regolazione istituzionale delle chiusure e delle ripartenze. —
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