La paura del silenzio che riempie le giornate di rumori scacciapensieri

di FEDERICA MANZON
Tutto comincia al mattino. Per primo arriva il segnale della sveglia, a volte sovrapposto alla raccolta del vetro; quindi si alza, raggiunge intorpidito la cucina. È ancora vagamente smarrito nel sogno della notte e i gesti escono come riflessi senza pensiero: prima di raggiungere la caffettiera, accende il televisore, cerca il segnale della radio. E la voce ci mette poco a invadere la stanza: l’annunciatrice delle notizie, un video musicale da Mtv, la lettura dell’oroscopo, se è fortunato la rassegna stampa di quella rete radiofonica dove tutti, per contratto suppone, parlano con un tono di voce basso e leggermente più mite di quello diffuso nel resto dell’etere.
Fa colazione così, nella cucina piena di voci sconosciute di cui mette a fuoco solo qualche frammento. Non saprebbe dire cosa è successo in Egitto e nemmeno qual è stata la dichiarazione del ministro del lavoro, eppure lascia che i suoni e le informazioni lo avvolgano dolcemente con quel loro potere riempitivo, confortevole. Altrimenti sarebbe il vuoto, l’ingombrante silenzio che potrebbe portare rischiosamente alla luce qualche voce interiore, qualche pensiero del mattino con cui è preferibile non restare a tu per tu.
E poi scende in strada, nella consueta sovrapposizione di clacson (per lo più indirizzati a quell’incomprensibile automobilista che si è fermato sulle strisce per lasciare il passo a un pedone), suonerie di cellulari, musichette che escono dai bar e dai temporary shop (assieme a un odore di vaniglia e brillantini appiccicosi). Arriva alla banchina della metropolitana costellata di cartelloni pubblicitari, dove una voce senza sosta racconta il meteo, le ultime notizie, gli appuntamenti di Class. Fino a quando un’altra voce appena più impersonale, quella del servizio pubblico, lancia le sue informazioni sugli orari del prossimo sciopero e l’arrivo del treno diretto a.
Dopo qualche fermata trova un posto per sedersi; in fretta estrae un libro o un giornale che gli tengano compagnia, si infila nelle orecchie gli auricolari. Per isolarsi, per stare in pace, per allontanare i rumori – si dice. Dopo mezz’ora di viaggio, se gli chiedessero quale musica ha ascoltato non saprebbe rispondere. Non è importante, era un sottofondo, poco conta se di un grande artista. Con buona probabilità tra mezz’ora avrà dimenticato anche il contenuto delle pagine lette, sostituite da altri contenuti ugualmente seducenti, forse di più.
Un attimo di sosta. Non c’è stato fino ad ora, nella mattinata di quest’uomo che conosco, che è un amico, che sono io, nemmeno un momento di silenzio. Siamo in una società della comunicazione e del rumore, verrebbe da dire. Ma non è solo questo, non siamo bugiardi. Ci sono dei gesti, molti e istintivi, che ci fanno scegliere: possiamo escludere il rumore o aprirgli la porta, evitarlo o ricercarlo. E allora? Quale paura nascondiamo dietro il nostro nevrotico bisogno di rumore attorno?
L’uomo che ora esce dalla metropolitana in una qualsiasi città occidentale, che è la mia, e si dirige a rapidi passi nel suo ufficio assediato da computer, radio, cellulari, si ricorda quando, alle scuole elementari, la maestra lo guardava scuotendo la testa e dicendo ai genitori: «È un bambino così silenzioso». Sua madre e suo padre si preoccupavano. Perché quella parola, silenzio, incuteva timori: indicava una stortura, un luogo quasi fisico dove stavano quelli nati con qualche difetto, quelli che non sapevano socializzare, che alle feste non avevano la battuta pronta e diventati grandi sarebbero stati dei disadattati. Dall’infanzia arriva questa maledizione dei bambini silenziosi: quelli che giocano per ore con lo stesso giocattolo, che sfogliano decine di volte lo stesso libro, che se qualcuno attacca un disco ascoltano rapiti la musica senza distrarsi.
Ma perché allora questa condanna del silenzio? «Vostro figlio è un bambino così silenzioso» sta per ben altra, più minacciosa, preoccupazione: «Vostro figlio è un bambino solitario». Silenzio e solitudine: la coppia mortale che terrorizza l’epoca.
Perché è vero, noi stiamo in silenzio solo quando siamo in compagnia di noi stessi, o di una persona che amiamo molto e da cui non ci dobbiamo difendere. Altrimenti parliamo, accendiamo il televisore, alziamo il volume della radio – tutte le nostre immancabili cene con Billie Holiday di sottofondo.
Il silenzio, così come la solitudine, si accompagnano sempre a quella condizione rischiosa e disagevole che è il restare soli con i propri pensieri, quello spazio non riempito che a starci troppo a lungo può spingere a scendere un po’ più in profondità nei luoghi oscuri del nostro animo fino a sentire cose che magari è meglio non sentire.
Allora subito ricerchiamo il rumore; la società ci viene incontro, ci asseconda e ci tranquillizza: più efficace di qualsiasi pastiglietta di Xanax, ci avvolge nella nuvola palcebo dei frastuoni, dell’eccesso di informazione, nella sovrabbondanza di segni che si traduce in comunicazione sempre più superficiale e per questo innocua.
E poi la giornata finisce. Quest’uomo così familiare esce dall’ufficio, va a prendere un aperitivo con gli amici in un locale qualsiasi, con musica e quasi sicuramente mega schermo, dove si chiacchiera così forte che non è necessario sentirsi e le frasi si fanno brevi, i messaggi elementari e ripetitivi, simili da tavolo a tavolo. Da lì, passa a un cinema o a un concerto, dove tendenzialmente si annoia e si addormenta, sopraffatto dalla corrente di suoni e contenuti che hanno la meglio sulla capacità del suo cervello e dei suoi sensi di comprenderli e trattenerli. Il cervello e i sensi di quel bambino solitario e selettivo che dedicava attenzione silenziosa a una musica o un cartone animato, ricordandosene a memoria ogni battuta.
Per questo a tarda notte, mentre cammina verso casa in una città placata e irreale, avverte un confuso spaesamento – la nostalgia vaga per qualcosa che gli è stato rubato senza che lui se ne accorgesse, qualcosa di cui non sente nemmeno la mancanza, che non ricorda. Quello spazio aperto che era il silenzio della sua infanzia, ma anche lo stesso del suo mondo interiore: un luogo dove i suoni e i segni non si sommano in una confusione che smarrisce il senso, non si ripetono nell’eco che rimbalza da tutti i lati senza essere mai afferrata, ma si fermano. E in questa pausa silenziosa tra sé e il mondo, tra il proprio tempo e l’epoca storica, tra le azioni quotidiane e le creazioni artistiche, si apre uno spazio nel mezzo dove l’eccessivo rumore si tacita, l’udito si fa più sottile e la vista più acuta; ed è in questi luoghi silenziosi che l’immaginazione si fa più forte.
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