LA PAROLA AI MAGISTRATI

Sostiene il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che i magistrati (in particolare i pubblici ministeri) devono lavorare di più, senza andare in televisione o fare convegni. L’affermazione è suggestiva, ma anche fuorviante. Presuppone che si risponda di sì alla seguente domanda: «È logico che tutti parlino di giustizia, a volte con toni da bar dello Sport, e che i soli a non doverne parlare siano proprio i magistrati? Non è come pretendere che i medici non parlino di sanità, gli insegnanti di scuola o i giornalisti di informazione?».


Sono convinto che in una situazione meno conflittuale le cose potrebbero essere diverse. Forse sarebbe possibile - e certamente preferibile - una minor esposizione dei magistrati. Ma sono altrettanto convinto che - qui e ora - le asprezze e difficoltà della stagione che stiamo vivendo, lungi dall’imporre il ”silenzio”, richiedano, ai magistrati, la ”parola”, che è non solo un diritto personalissimo ma anche un contributo potenzialmente utile alla realizzazione di una giustizia migliore.


La partecipazione anche dei magistrati al dibattito e al confronto culturale sui temi della giustizia, dunque, mi sembra importante. Evidentemente occorrono equilibrio e senso della misura, ma qui si sfondano porte aperte. Tra i limiti c’è principalmente quello secondo cui il magistrato di tutto può parlare e scrivere meno che dei propri processi. Questo limite sacrosanto, però, non esclude che rispetto alla questione posta dal ministro si possa ”rilanciare”, ponendo alcuni interrogativi. Il processo sempre più frequentemente interpretato sugli organi di informazione dalla parte privata non consiglia - in alcuni specifici casi concreti - una lettura speculare a opera della parte pubblica? Lo strapotere dei media, con le imprecisioni e le fantasie che talora lo accompagnano, può essere, a volte, bilanciato da precisazioni e chiarimenti da parte del magistrato, anche a protezione di chi vi è coinvolto? Quanto poi all’invito del ministro a lavorare di più, posso assicurare che di solito chi partecipa a pubblici dibattiti sa benissimo che deve essere inattaccabile riguardo alla sua produttività, per cui fa davvero di tutto (e di più) per prevenire ogni possibile obiezione circa l’impegno effettivo profuso in ufficio.


Piuttosto, l’esternazione del ministro sollecita riflessioni sul lavoro delle procure da un altro punto di vista. Il problema vero non è di qualche magistrato che va in televisione, ma delle procure che sono sempre più sguarnite di magistrati. I posti scoperti, soprattutto in Sicilia e in Calabria (ma non solo), sono ormai moltissimi, con concreto rischio di paralisi degli uffici. E si tratta spesso di uffici ”di frontiera”, che operano in aree dove per fortuna polizia e carabinieri stanno arrestando fior di latitanti, ma poi non ci sono i pubblici ministeri per fare le indagini.

Una situazione paradossale, cui è necessario e urgente porre rimedio. Per esempio tornando all’antico, quando si potevano impiegare nelle procure della Repubblica anche magistrati di prima nomina, prevedendo nello stesso tempo adeguati corsi di specializzazione.

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