La nuova cortina di ferro che risveglia mille ricordi

Ma dove sono finito? Spazio e tempo si confondono, ritornano gli odori, i colori, quelle sensazioni di un passato che sembrava destinato al libro dei ricordi. E invece siamo di nuovo qua. Di fronte al confine tra Slovenia e Croazia, due Paesi europei. Superarlo però è impresa da check-point Charlie di berliniana memoria. Qui, siamo sulle sponde del fiumiciattolo Dragogna, non è Ovest; e al di là non c’è l’Est. Eppure la “cortina di ferro” c’è eccome. Un pannello di alluminio verde (per l’impatto ambientale ovviamente) con sopra un rotolo di filo spinato tagliente. Roba da lager. E subito ti chiedi: ma chi mai avrebbe mai intenzione di varcare clandestinamente quello stramaledetto limes qui in Istria? Poi ritorni con lo sguardo al valico. Ancora lontano. Un miraggio, visti i tempi dati alla coda delle automobili.
Più ti avvicini al controllo dei documenti più ti rendi conto che i tempi di Tito, come potevi pensare a un primo sguardo approssimativo, non sono tornati. E questo va bene. La conferma viene dall’atteggiamento degli stessi poliziotti. Innanzitutto non ci sono i doganieri (Slovenia e Croazia sono entrambe nell’Unione europea, come detto) e va meglio. Ma i granicari sono chiusi nelle loro cabinette intenti a scannerizzare il documento e a battere dati al terminale del computer.
Quando c’era lui, tra Italia e Jugoslavia, se non faceva eccessivamente freddo il poliziotto ti accoglieva in piedi davanti alla sbarra. Se ti andava bene faceva solo uno striminzito gesto col polso della mano per dire “avanti”, se no svogliato e perennemente stanco ti dava appena un’occhiata ai documenti. Se alla guida dell’autovettura c’era qualche bella ragazza, beh, allora il controllo diventava più minuzioso, se non altro per sbirciare in improbabili scollature o ammiccare più in giù, tra freno e frizione.
Oggi la liturgia è cambiata. Il poliziotto sta nella sua postazione e tu sei in automobile. Gli porgi il documento che passa sotto lo scanner oppure, nel caso delle carte d’identità cartacee italiane, digita il tuo nome sulla tastiera del computer. Uno scambio freddo, dove quasi non ci si guarda negli occhi, l’umanità va in soffitta, il fiuto del vecchio poliziotto che annusa nell’aria la presenza di un delinquente è oramai roba da libro Cuore. Tu sei lì e aspetti che un cervellone elettronico collocato chissà dove ti dica se sei un onesto cittadino oppure uno che non ha diritto di attraversare quel confine, quella linea, quel muro.
E pensare che ci avevano raccontato di un’Europa senza confini. Di un’Europa dove si poteva circolare liberamente, scambiarsi esperienze e opinioni senza incorrere in forzati controlli di polizia. Ma la Slovenia è il limes esterno dell’area Schengen, una sorta di “antemurales cristianitatis”, la barriera all’ingresso di terroristi islamici, rifugiati clandestini provenienti dal Medio Oriente e quant’altro. In soli vent’anni la geopolitica mondiale è cambiata. Nuovi scenari, nuove guerre, nuovi nemici. E tu sei lì, sotto un cielo plumbeo di aprile che rivivi le paure degli anni Sessanta, quando andare in “Jugo” comportava fare meno code, noi transfrontalieri grazie agli accordi di Udine potevamo transitare lungo i valichi secondari con il lasciapassare. C’erano le doganiere dalle gambe pelose e la scia di sudore che albergava sotto l’uniforme, c’era la carne da nascondere nel bagagliaio oppure la grappa di casa clandestinamente riposta sotto il sedile. Attimi di panico. Poi il sospirato “avanti”.
Ora, di fronte al nuovo confine, siamo tutti uguali. Omologati all’obbligo della coda per combattere il terrorismo. Dall’alto Castelvenere occhieggia annoiata nel sovrastare la valle della Dragogna e delle saline di Sicciole. Lì, moltissimi anni fa non c’era la terra ferma, lì entrava il mare e sulla rocca di Castelvenere già in tempi remotissimi c’era un castelliere dove si operavano traffici e scambi commerciali con le barche che attraccavano ai piedi della rocca. Destino amaro, da porto franco di mercanti a limes marchiato dal muro anti-migranti e da un confine blindato. Ma dall’una e dall’altra parte di quella linea quasi invalicabile vivono le stesse persone che parlano la stessa lingua, ci sono famiglie “transfrontaliere”, gente che lavora “di qua” e “di là” del confine.
E tu sei là. Documento nelle mani oramai sudaticce per la lunga attesa in coda. E ti chiedi ancora una volta che cosa sia successo. Se il tempo si è fermato o tornato indietro in una sorta di malefica macchina del tempo innescata da un improbabile dottor Stranamore.
Il tuo umore cambia. Ti senti lacerato nell’idea di quell’Europa in cui hai sempre creduto e che improvvisamente inizi a ripensare, a rimuginare, a rimasticare negli antri della tua autocoscienza.
Un sorriso dell’agente accoglie il tuo documento. Ti rassereni anche se quella tecnologica macchinetta nella quale vengono inseriti i tuoi dati anagrafici mica ti dà tanta sicurezza. Era meglio quel grani›aro in piedi, così temibile, così umano, troppo umano per citare Nietzsche.
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