La minaccia del gelo sui disperati del Silos
Il ritorno dei profughi nel rudere pericolante tra pulci e rifiuti

Silvano Trieste 01/11/2017 All'interno del Silos
Sono tornati. O forse non se ne sono mai andati. Poco importa: il Silos è di nuovo pieno di profughi. Costretti, in questi giorni, a fare i conti anche co la Bora, la pioggia e il freddo portati dal primo assaggio di inverno. Un’emergenza nell’emergenza.
Sono una trentina in tutto, afgani e pachistani. Come sempre dormono in capanne di fortuna, fatte di cartone, pezzi di legno e reti metalliche che trovano in giro per i cantieri. Rifugi che con il vento stanno in piedi per miracolo. Se le temperature si abbasseranno ancora, come potrebbe accadere nelle prossime settimane, i migranti rischiano di passere le notti al gelo. «Ma sentiamo già molto freddo di notte», racconta preoccupato Omar Khan, afgano di 22 anni. Il connazionale Abdul Achakzai, coetaneo, annuisce.
Sono qua da un mese. Il loro giaciglio sta su, nascosto nel piano superiore del Silos. Ci sia arriva infilandosi nel buco di un sottoscala, stando ben attenti a non tagliarsi sugli spuntoni di ferro arrugginito. Un pertugio che Omar e Abdul conoscono bene. Fanno strada. I gradini, che stanno in piedi per miracolo, sono zeppi di spazzatura ed escrementi. Scritte in arabo sui muri. Vetri dappertutto. Puzza. Piccioni morti, mosche attorno.
«Ecco, dormiamo là», indica Omar. In fondo si distingue una decina di giacigli. Stracci, coperte e vestiti. Sono sudici. L’odore è forte. Sopra la testa volteggiano i gabbiani. Il tetto di legno, sorretto da travi e tiranti, è pieno di buchi. Non ci sarà da stupirsi se prima o poi crollerà tutto.
Omar e Abdul dormono in due sacchi a pelo, come i loro compagni di sotto. Roba putrida. «Guarda». Omar si scopre un braccio, tirandosi su la manica della maglia scura. «Guarda». La pelle è piena di puntini rossi. Punture. Zanzare. Pulci. E si gratta. Si grattano sempre, lui e Abdul.
Tra mezzogiorno e l’una sono soltanto loro, qui al Silos, a presidiare questa “città nella città”. Più in là ecco un altro straniero che fa la spola tra il capannone e piazza Libertà. Gli altri sono a pranzare alla Caritas di via dell’Istria. Ci vanno con la 20 dalla Stazione. «Ma alla Caritas non ci accettano più», protestano Omar e Abdul. Perché? Difficile capirlo. Sono fuori dal sistema di accoglienza cittadino, pare. Problemi con la giustizia? Spaccio? Uno dei due deve aver capito la domanda e fa «sì» con la testa. «Serve l’autorizzazione di un assistente sociale».
Nel frattempo non sanno dove andare, dove stare, dove dormire, e quindi sono qua. Come vagabondi. Quando va bene, mangiano ciò che portano i connazionali dalla mensa. Altrimenti rimangono qui, seduti per terra, ad aspettare. Trascorrono il tempo senza fare nulla. Ore e ore.
Di tanto in tanto appare un personaggio piuttosto noto nel giro di spaccio di piazza Libertà. Non è straniero, ma italiano. Cosa va a fare al Silos? Sembra quasi “di casa”. Qui, dove di giorno regna il silenzio. E di notte si popola di decine di disperati.
Sacchi della spazzatura ovunque. Biciclette sventrate, le cui ruote servono per fermare a terra le tende, lembi di coperte colorate che spuntano dai cumuli di fango. Pentole lerce, con avanzi di cibo incrostato e andato a male. Colombi che in un angolo s’azzuffano per un tozzo di pane. Ancora mosche. Omar e Abdul che riprendono a grattarsi. «Qualche settimana fa - spiegano - quelli dell’Ics ci hanno detto che presto, non appena si sarà liberato posto, avremo un appartamento dove stare...». Ma i due afgani, in possesso delle tessere sanitarie, dovrebbero essere stati inseriti nella rete di accoglienza cittadina. E cosa ci fanno lì, con loro, gli altri trenta connazionali? Perché vivono al Silos ora che l’emergenza migranti sembra essere sotto controllo, con numeri che le istituzioni definiscono «gestibili» ?
Il posto è enorme. Le capanne, mese dopo mese, compaiono e scompaiono di continuo. Talvolta se ne vedono i resti, divorati dal terriccio e dal fango. Qualcuno si è costruito pure una zona a sé, delimitata con corde e tende. I profughi entrano dalla parte del Porto Vecchio, lungo l’inferriata laterale, piegando la recinzione, dove non sono visti. Scavalcano e oplà, sono oltre. Nella terra di nessuno. Per scaldarsi, la sera, accendono fuochi: i muri anneriti sono un po’ ovunque. In passato le fiamme hanno intaccato pure le capanne.
Il lato “Stazione”, quello che dà sui binari, è il meno abitato. Lì i controlli della polizia sono più facili e i profughi hanno capito che aggirarsi in quella zona può essere rischioso, quindi ora occupano la parte più defilata. Dove nessuno li nota più di tanto.
Ma la “città nella città”, con le sue palafitte di cartone e legno, a qualche centinaio di metri da piazza Oberdan e da piazza Unità, è di nuovo popolata. Oggi come prima. Non c’è amministrazione comunale, non c’è colore politico che riesca a scrivere la parola fine. Ma il freddo, la pioggia e la bora sono già una cruda realtà.
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