La mia sirena al bar che beve Prosecco e custodisce i segreti

Si intitola "La terra vista dall’acqua" il nuovo racconto di Federica Manzon ambientato in una Trieste sospesa fra realtà e fantasia. Ecco la quarta puntata, la seconda scritta sulla base delle foto inviate dai lettori: le immagini di questa puntata sono di Giada Passalacqua. Ma il gioco continua. Ai lettori i suggerimenti sulla continuazione della trama: mandate le foto a racconti@ilpiccolo.it

Ogni volta mi costa fatica distogliere il binocolo dalla finestra al primo piano di quel quarto palazzo. Lo devo fare, altrimenti finirei per dare nell'occhio più di quanto già non faccia. E poi, in fondo, non mi servono lenti potenti per vedermela davanti. Anche se è stato breve il tempo in cui ho potuto guardarla da vicino. In quei pochi mesi in cui fu una creatura terrestre, so per certo che ogni giorno scendeva al bar di Robi, qui sul canale. Usciva di casa nel tardo pomeriggio, quando il sole illuminava i palazzi di una luce più morbida e l'aria non aveva più il calore polveroso che la faceva svenire. Sceglieva con cura il tavolino e si accendeva una sigaretta, teneva gli occhiali da sole a proteggere il fragile turchino. Ho provato ad accompagnarla qualche volta. Ha sempre risposto con un gesto vago della mano, intendendo che non era il caso, non era roba per me. Il bar di Robi, come questa piazza che ora controllo, mi erano interdetti.

Un racconto da immaginare per Il Piccolo
La scrittrice Federica Manzon

Al quel tempo, mi sono sforzato di rispettare questa decisione. Restavo chiuso nelle tre stanze di casa mia a camminare avanti e indietro, cercando di dare un ritmo regolare al respiro e ai pensieri. Quasi subito si impossessava di me l'immagine di lei, la schiena abbandonata sulla sedia, quasi distesa, la posa sfinita che seduce così facilmente. Aveva i suoi traffici da quelle parti. Scambiava sottobanco merce preziosa: gioielli da sirena che arrivavano da chissà quali profondità, oro e pietre preziose che qualche marinaio (mio padre, mi piaceva pensare) le aveva fatto scivolare al collo e alle caviglie. Li svendeva a poco prezzo in cambio della compagnia sempre inedita di uno sconosciuto. Cercava il brivido di una mano ignota che stringe il polso e conduce chissà dove. Lo spasimo... no, non di un sentimento, ma di un qualche muscolo capace di tendersi per un istante in una scossa profonda. Cercava solo un modo per vivere in questo luogo che non era il suo, per smettere di sbattere la testa contro il vetro come una tartaruga dell'oceano prigioniera in un acquario. Naturalmente non lo capivo a quel tempo, dalla mia prospettiva di terrestre.

Al mattino marciavo fino al bar e interrogavo Robi. L'aveva vista? Quanti bicchieri di prosecco aveva ordinato? Qualcuno aveva pagato per lei? Robi si calava la visiera del berretto sugli occhi e faceva un sorriso mezzo sghembo. La protegge, pensavo. Mi compativa, tutto qui. Bevevo il mio caffé e lasciavo le monetine sul bancone per non dover incrociare ancora il suo sguardo. Anche mia madre mi avrebbe guardato in quel modo. Lei che aveva speso tante energie per mettermi in guardia dagli imbrogli che vengono dal mare, e guarda com'ero finito. Filavo via, a percorrere i miei tragitti quotidiani nella vana speranza di incontrarla inaspettatamente prima dell'orario deputato.

Un capitano di fregata che vedeva le navi dall'ufficio
Foto Bruni 08.02.14 Ponte Rosso,ombrelloni e verande

Mi ricordo il giorno preciso, era l'11 di agosto. Forse era colpa delle stelle che non avevamo visto cadere il giorno precedente o di una luna anomala. Più probabilmente non ero riuscito a tenere a freno l'impazienza di vederla e così, nel tardo pomeriggio, ero sceso di casa puntando dritto verso piazza Sant'Antonio. In quel momento non mi importava della promessa di lasciarle libere le ore della sera, che sono anche le più tenere, quelle in cui bisogna avere i nervi saldi per non cedere al desiderio. E io porto addosso i geni di mio padre, non ho la fermezza dei segni di terra, il mio animo è volubile. Desideravo solo stringerla a me. No, meno ancora, mi sarebbe bastato guardarla, assicurarmi da lontano della sua esistenza, qui nel mondo dei terrestri.

Alle sei e mezza in punto svoltai l'angolo di via San Spiridione. Già stringevo gli occhi per metterla a fuoco al suo tavolino preferito, vicino al bordo dell'acqua. Non servì aguzzare la vista. Il bar era chiuso. Senza un'anima viva. Un'installazione distopica da biennale d'arte contemporanea: una quindicina di tavolini rotondi ognuno con quattro sedie esatte, l'acciaio tirato a lucido. Una geometria astratta, ideale per evocare qualsiasi fantasma.
Dicono che nei momenti di più forte paura sentiamo il cuore in gola. Io non sentivo nulla. Solo un dolore acuto alle ossa delle mani, come se decine di piccoli roditori le stessero sgranocchiando. Non potevo afferrare nulla, la consistenza del suo corpo era svanita. Non avevo idea di dove cercare. Sott'acqua probabilmente. Ma non ho mai imparato a nuotare.

La strana fuga dalla vita in una barca sul canale
Il Canal grande di Trieste in una foto di Francesco Bruni

Mi ricordai di mio padre, una delle rare passeggiate insieme. Eramo arrivati al molo Audace, mi aveva fatto salire in piedi su una bitta e alle mie spalle aveva sussurrato: "Quando non saprai cosa fare della tua vita, vieni qui e guarda il mare. Potrai sempre decidere se buttarti e rischiare d'affogare o startene con i piedi per terra".
Non avevo nessun indizio quel giorno, solo la mia folle paura. Così mi precipitai verso il molo. Vidi Robi fermo dall'altro lato della strada. Lo riconobbi dal berretto con la visiera. Portava una giacca a vento rossa perché tirava vento. Le mani in tasca gli davano un piglio pensieroso. Lo raggiunsi senza fiato: "Dov'è andata?".

Come al solito non mi degnò di una sillaba, ma fece un cenno con la testa verso il mare aperto. La grande nave da crociera era salpata quel giorno, diretta a Oriente. Si vedeva ancora il profilo bianco e giallo muoversi lento e inarrestabile come una placca tettonica che prepara il terremoto. Davanti un'esile barchetta a vela ne seguiva la scia. "Quale delle due? Dov'è salita?" avevo chiesto disperato. Robi aveva scosso la testa. Forse intendeva dire che non capivo niente, e con uno stupido è inutile spiegarsi. Forse voleva mantenere il segreto. Forse invece voleva dirmi, con la sua aria assorta, che non valeva la pena agitarsi tanto: sarebbe tornata, prima o poi.

Quel giorno al Luna Park ho visto le lacrime sul volto di mio padre
23 Aug 2012, Santa Cruz, California, USA --- Rides on Santa Cruz Beach Boardwalk --- Image by © Richard T. Nowitz/Corbis

La sapeva lunga, ma questo l'ho imparato solo adesso, guardandolo dal basso della mia barchetta sul mare. Qui sono costretto alla calma, non posso nemmeno camminare avanti e indietro troppo rapidamente altrimenti finirei per rovesciarmi. Non so se mi ha riconosciuto, se si ricorda di me. Avrei dovuto ascoltarlo prima, invece di zittirlo con i miei interrogatori. Avrei capito in tempo quello che so ora, troppo tardi: è sempre venuta qui la sera perché in questo pezzo di città nessuno conosce nessuno, non ci si sente esclusi, e a nessuno importa se una sirena non sa parlare la lingua dei terrestri.

(4 - continua. Le altre puntate sono state pubblicate il 27 luglio, il 3 e il 10 agosto)

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