La mancanza di ascolto nel mondo individualista inondato da fiumi di voci
Manca spesso la pazienza di connetterci con l’altro
dando il giusto peso alle sue parole. Ci interessa solo sentire noi stessi
TRIESTE Un aspetto che caratterizza l’individualismo ormai generalizzato è la mancanza di ascolto. Ciò che ci interessa è prendere la parola in ogni situazione, dare così prova di esistere, “parlo dunque sono” potremmo sintetizzare con un sorriso. Questo vale ovunque, da quello che accade dentro le mura domestiche a quanto verifichiamo fuori, negli spazi pubblici, quasi sempre.
Non credo ci sia bisogno di tanti esempi, tutti viviamo all’interno di questo flusso di parole, sollecitati in ogni istante da un’orchestra mediatica via via più incalzante, da quando ci svegliamo la mattina a quando ci addormentiamo la sera con rare interruzioni. Osservo, piuttosto, il fatto che non è solo una questione che riguarda l’abbassamento dei toni, sulla quale si è molto insistito: certo, attenuare i toni spesso gridati è un gesto eticamente auspicabile, il necessario inizio per aprire la strada a un atteggiamento critico, però non è sufficiente.
Bisogna fare un passo oltre per arrivare al cuore del problema, cioè che il nostro continuo parlare manifesta l’inceppo in cui stiamo intrappolandoci, e soprattutto rende sempre più inattiva la capacità di ascoltare, al punto che stiamo quasi disimparando a usarla. Se le parole che diciamo, anche quando le pronunciassimo con calma (il che accade raramente, basta accendere il televisore), vengono caricate dal compito di rappresentare l’individualità di ciascuno di noi, altrimenti non contano, e fin qui – credo – possiamo forse intenderci, che ne è dell’ascolto a cui dovrebbero essere indirizzate?
L’ascolto è il vero oggetto misterioso della questione. Magari riusciamo perfino a calcolarlo facendolo diventare un dato sensibile. Ci viene infatti comunicata la quantità di “ascolti” che ha avuto un discorso pubblico, come se fosse completamente ovvio che l’ascolto possa essere conteggiato. Dico che si tratta di un oggetto misterioso perché è facile verificare che quasi nessuno riesce (anche se lo volesse) a impersonare davvero il ruolo dell’ascoltatore: non abbiamo quasi mai la pazienza di metterci in ascolto di chi ci sta parlando. Crediamo di avere già capito tutto dalle prime tre parole che pronuncia e già da subito elaboriamo nella nostra testa le parole di risposta che possiamo dargli.
Siamo tutti dei parlanti, quasi nessuno di noi è un ascoltante. Pochi, molto pochi ascoltano. L’ascolto è raro perché è un gesto scomodo, faticoso, che richiede un’inabituale attenzione all’altro. Prendersi cura di chi abbiamo vicino e di fronte comporta un distoglimento da sé stessi che non rientra nell’esperienza comune e quotidiana. Per ascoltare (non per finta, ma davvero) occorre riuscire a tacitare il nostro ego e la sua fretta di chiudere, rattrappire al massimo lo spazio di attesa prima di poter prendere la parola.
L’ascolto esige che ci sia lì, nella scena reale, un altro soggetto. Non c’è effettivo ascolto senza questa “ospitalità”, perciò è rarissimo provare la sensazione che la persona alla quale ci rivolgiamo stia davvero ascoltando. Non è dunque esagerato farsi l’idea che l’attuale società, in cui tutti ricevono ed emettono torrenti di parole, dunque una collettività indubbiamente fondata sulla comunicazione (parlata, scritta, digitata), risulti in definitiva una comunità di sordi, di soggetti che magari credono di ascoltarsi ma che in effetti “non hanno orecchio”.
Il che introduce un aspetto non irrilevante del problema che sto cercando di contornare: l’ascolto c’è (come dicevo, lo possiamo perfino tradurre in numeri), ma quasi sempre si tratta di un “falso ascolto”. Ascoltiamo, anzi passiamo le giornate ad ascoltare. Ma chi ascoltiamo? La risposta è deprimente: ascoltiamo di continuo e quasi esclusivamente noi stessi.
Negarlo, come tutti saremmo portati a fare con un moto immediato di difesa, appare un’impresa ardua. Occorrerebbe negare che mentre parliamo, non importa in quale circostanza, siamo tutti presi dall’“ascolto” di noi stessi: dal timore, forse anche, di dire parole che non sono proprio quelle che volevamo pronunciare, ma soprattutto dal piacere, dal compiacimento di quanto stiamo dicendo, arrivando (non raramente) al punto di osservare prima noi stessi che le reazioni e il comportamento di coloro con i quali stiamo parlando.
Mi pare che questo sia un “falso ascolto” proprio perché l’altro, in tale esperienza di normale narcisismo, viene completamente tolto di mezzo. Aggiungo solo che ascoltare sé stessi sarebbe invece un esercizio molto importante, se volessimo e potessimo ascoltarci prendendo una distanza critica e introducendo un “altro” orecchio, ma questo non capita quasi mai e sempre meno.
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