La mail della moglie tradita è una vendetta postuma sul Viale dei Glicini
TRIESTE Da un po’ di tempo la sua vita si era assopita. Non ne capiva le ragioni e non sapeva quindi reagire. O forse non voleva. C’era un gusto in quel sapore piatto dei giorni immobili che entravano ed uscivano senza fare rumore. Un gusto strano, forse di attesa, forse di arrivo al punto prima di una svolta. Non c’erano dolori in quella primavera prepotente, piuttosto un silenzio a cui si lasciava volentieri andare. Fuggiva le voci, ancora di più le proposte, che le pareva avrebbero potuto distrarla. Da cosa, non le era chiaro. Aveva la pelle sciupata, questo sì, perché evitava l’aria. L’unica cosa che l’attraeva irrimediabilmente erano le mail. Le controllava ossessivamente (più tardi si sarebbe detta “per un intuito quasi magico”), molte volte al giorno e fino a un attimo prima di affrontare il sonno, sempre tardissimo, un’ultima birra in corpo per scivolare in quelle piccole notti che la lasciavano sfinita. Le parole che avrebbero cambiato tutto arrivarono così. E nel buio pioveva.
“Mi sono chiesta a lungo se darti del tu o del lei. Poi mi sono detta che stavo ingannando il tempo soltanto per non mandare queste parole. Ma adesso non posso più aspettare. Tu, dunque, probabilmente non ti ricordi di me. Ci siamo conosciute solo per un attimo, in un altro tempo e in un’altra città. Caso, amici comuni, una serata qualsiasi. Tu, dunque, sola, tesa e ridente. Bella, lo pensai subito, di una bellezza che non aveva a che fare con il tuo volto. Addosso un nome strano, di cui non ho voluto chiederti. Io, invece, insieme a quello che è stato il mio amore fin da quando avevo diciotto anni. Un amore buono, fino alla fine. Un uomo buono, quasi fino alla fine. Francesco se n’è andato, così mi dicono, così si dice, in qualche mese. La malattia aveva già fatto quasi tutto, quando ce ne siamo accorti. Restavano cose da sistemare, dolore da alleviare, parole da dirsi. Purtroppo. Perché quando ormai eravamo così sfiniti da desiderare che finisse mi ha detto quelle terribili parole: Faresti qualsiasi cosa per me? Certo amore, qualsiasi cosa. E allora mi ha parlato di te, una storia che io non ero stata nemmeno capace di annusare. Pochi mesi mi ha detto, ma io ero stata comunque il suo grande amore, sempre, comunque. Mi ha chiesto, quando se ne fosse andato, di scriverti solo questo: che ti era grato, che eri stata importante. E che non aveva mai dimenticato il Viale dei glicini. Con questa mail tengo fede alla mia promessa. Il resto non ti riguarda. Rispondimi solo per farmi sapere se ti ho veramente trovata. Anna”.
Nia chiuse immediatamente il computer e non sapeva più se camminare, sdraiarsi, aprire tutte le finestre. Pioveva tanto nel vento, quella notte, si sarebbe inzuppata. Chiuse dunque subito, con un po’ di violenza, il computer, ma le parole rimasero lì dentro e non avrebbe comunque potuto cancellarle. Poi provò rabbia. Che bisogno aveva avuto Francesco… si erano nascosti così bene, in quella primavera di dieci anni prima. E poi lo sapevano entrambi, se l’erano detti tenendosi per mano, che non bisogna parlare delle storie finite, che bisogna lasciarle in pace se si vuole che mantengano per sempre una qualche verità. Poi, solo dopo, pensò che era morto. Ma per lei non esisteva già da tanto. Non era una donna di nostalgie. Non le venivano bene neanche i sogni e le speranze. Se ne stava con i piedi piantati nelle piccole cose e coltivava allegrie tutte sue, che non aveva il bisogno di condividere. Pensò ad Anna, ma anche se in quei mesi era stata lì, da qualche parte tra loro, non la ricordava. E per la prima volta si sentì un poco in colpa con lei. Cercò qualcosa che potesse distrarla, provò a leggere, a disegnare, pensò ad un bagno, ad un’altra birra. Poi accettò che quel tempo, la notte, forse i prossimi giorni, se li prendessero i ricordi. Devo farlo, si disse, e dopo sarò libera. Perché sapeva che l’unico modo di affrontare il dolore era tuffarsi, lasciare che ti sommergesse per poi lasciarlo andare.
Di Francesco aveva subito notato le borse sotto gli occhi. Le piacevano. Facevano di lui un uomo stanco e impegnato in entusiasmi trascinanti. Avevano chiacchierato, lui soprattutto, parlava molto e con tutti. Gli aveva dato il numero di telefono perché era in un periodo dei “perché no”, e poi non ci aveva pensato più. Pochi giorni dopo si era trasferita in un’altra città e anche questo faceva parte dei “perché no?”. Lui l’aveva chiamata una mattina prestissimo di quasi un mese dopo. “Sono nella tua città. Ho bisogno di vederti”.
A quell’ora Piazza Unità era quasi deserta. La luce incominciava a sollevarsi, e sì, con dita rosate. Si erano abbracciati stretti, come se avessero aspettato troppo a lungo di ritrovarsi.
“Ma questo è un amore?” chiedeva lui ogni tanto.
“Dipende. Hai mai fatto o detto con me cose che non hai mai fatto e detto con qualcun altro? Se la tua risposta, che non voglio sentire, è un sì, puoi anche chiamarlo amore.”
Francesco rideva per non parlare e lei si sentiva leggera, padrona di quella storia fatta di piccoli incontri, solo una volta in un paesino di cui le piaceva il nome e tutte le altre in quella città che amava profondamente. Lo aveva portato in tutti i luoghi in cui era stata bambina, stretti davanti alla vecchia alta casa in cui era cresciuta, sui prati del Carso di notte, mille volte vicino al mare quando non avrebbero potuto incontrare nessuno. E lungo il loro Viale dei Glicini, che nel grande Parco di Miramare era quasi sempre deserto.
Lì lo aveva portato dopo che avevano consumato un’ansia di stare assieme che li aveva sorpresi. E lì, più tardi, avevano capito che non esisteva più il loro tempo. Nia aveva voluto mostrargli quel meraviglioso acciottolato fatto di minuscoli sassi che la ipnotizzava da sempre. “Chissà da quale fiume vengono, chissà se Massimiliano li ha scelti uno ad uno per rendere l’andare della sua Carlotta più dolce. Chissà chi ha li ha sistemati così, uno accanto all’altro ma come se non si conoscessero. Ore ed ore di lavoro… uno solo o più uomini? Due penso, e che non parlavano la stessa lingua.” Francesco ascoltava la sua mente giocare, ogni tanto le toccava i capelli e diceva “Ancora”. “Guarda, tra i ciottoli c’è un unico pezzetto di ceramica azzurra. Scommetto che è un pezzo di una tazza di Carlotta. Forse l’ha fatta cadere in un momento di tristezza, oppure perché la cattiva invidiosa dama di compagnia le aveva fatto sapere all’improvviso che Massimiliano si preparava a partire. E forse il posatore di ciottoli, innamorato segretamente di lei, l’aveva raccolta e messa lì per lasciare un segno eterno del suo amore”. “Inventi tutto” diceva Francesco. “Certo, qualche volta invento anche noi”. “E come siamo quando ci inventi?” “Siamo” rispondeva Nia “che nei nostri giorni non ci sono interruzioni, che tu non te ne vai dalla tua donna e io non ritrovo più la libertà di essere sola. All’inizio siamo felici, come adesso e qui, e poi piano piano qualcosa si rompe, come tra te e la tua donna, e allora dobbiamo di nuovo andare a cercare, forse tu, forse io, non so, ma comunque siamo di nuovo perduti”. “Allora” sussurrava Francesco scrivendole con le dita parole sulla schiena “preferisci così?” “Che importanza ha” rispondeva Nia. “noi abbiamo solo questo, e non è male”.
Una volta, una volta soltanto e allora i glicini erano in fiore e la bellezza di quel luogo estenuava, avevano fatto bene a creare curve, angoli di pietra, la pacatezza del laghetto delle ninfee, qualche squarcio verso al Castello per ricordare che la realtà c’era, solo una volta le aveva detto “Lascio tutto e vengo a vivere con te”. “No, grazie” aveva risposto Nia “non è così che deve andare”. Soffriva di non averlo tutto per sé? Solo qualche volta, ma di rado. Per lo più si sentiva felice. Anche quando non c’era. Quella storia, forse avrebbe potuto dire quell’amore, stava bene nella sua vita.
Che cosa le piaceva di Francesco, si chiedeva ora, dieci anni dopo e senza che avesse altra importanza che quella di onorare la sua morte. Non certo che fosse piuttosto basso e sempre agitato, non che fosse uno dei tanti uomini che tradivano la propria donna. Anzi questo, proprio lei, la complice, lo detestava. Quando qualcosa non la convinceva Nia se ne andava via veloce e senza guardarsi indietro.
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