La Lega in Fvg alle prese con il leader pigliatutto, star di social e tv, il cerchio magico e i gregari nell’ombra

Guida indiscussa, Fedriga detta la linea a una platea di amministratori e militanti osannanti. I congressi? Non si fanno

TRIESTE «Lo Stato, sono io», diceva Luigi XIV, chiarendo in quattro parole di chi fosse la sovranità in Francia. «La Lega, sono io», potrebbe rilanciare quattro secoli dopo e con le debite proporzioni Massimiliano Fedriga. Presidente della Regione e (di nuovo) segretario del partito, il triestino è guida indiscussa del Carroccio in Friuli Venezia Giulia. Tra i più cari a Matteo Salvini, amministra un territorio marginale rispetto a Veneto e Lombardia, ma nei suoi confini Fedriga concentra un potere che non si ritrova fra gli altri governatori leghisti: una monarchia che poggia sul suo cerchio magico e su un seguito di osannanti amministratori, che senza di lui non godrebbero delle posizioni assunte negli ultimi anni.

Roberto Maroni ha definito la Lega un partito leninista: una comunità di militanti e un leader intoccabile. È accaduto con Umberto Bossi, con lo stesso Maroni e oggi con Matteo Salvini. Accade in regione con Fedriga, che è stato bossiano, maroniano e salviniano: «Perché sono un leghista e da noi è così», dice il presidente. Discutere della ricandidatura nel 2023 è prematuro: dipenderà dall’evoluzione politica romana e dalle occasioni che si presenteranno per tornare sul palcoscenico nazionale. Ipotesi non scartata.

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Intanto Fedriga amplifica le battaglie di Salvini in tv e sui social, distinguendosi solo dai suoi eccessi su mascherine e coronavirus. I toni più pacati somigliano a quelli di Luca Zaia, che alle regionali rischia di totalizzare un consenso personale tale da proiettarlo implicitamente come possibile successore di Salvini. Fedriga ha buoni rapporti con il collega, ma non vede alternative al segretario che ha portato la Lega dal 4% a primo partito italiano. Il volto moderato è peraltro solo una delle due facce del presidente Fvg, che invoca la castrazione chimica contro le molestie sessuali e perdona in un amen il consigliere regionale Antonio Calligaris, che ai migranti «sparerebbe tranquillamente», come dice lui.

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Fedriga è tornato alla guida della Lega durante il lockdown, dopo aver lasciato per un breve periodo la segreteria regionale alla pordenonese Vannia Gava. Nel partito nessuno spiega le motivazioni del passaggio di testimone: chi dice che Gava abbia cominciato a fare troppo da sé dopo esser stata nobilitata sottosegretaria; chi pensa che il calo di consenso del Carroccio richieda l’assunzione di responsabilità del capo; chi sussurra che Fedriga si fidi di pochissimi e abbia voluto riprendere il pallino in mano in vista delle amministrative.

Il presidente non ha problemi invece a concedere spazio ai suoi assessori, come dimostra la gestione dell’epidemia: da una parte l’onnipresente Zaia in Veneto, dall’altra il protagonismo del vice Riccardo Riccardi. Fedriga tiene per sé le partite politiche, dove si gioca lo scontro col governo giallorosso, dai trasferimenti finanziari ai migranti. Bastone e carota, perché agli attacchi social, il leghista affianca un atteggiamento dialogante ai tavoli. Le opposizioni lo accusano di buttarla in caciara, ma la luna di miele con l’opinione pubblica continua: il triestino è il secondo presidente di Regione per gradimento in Italia, anche se i leghisti friulani gli rimproverano a bassa voce poca presenza oltre l’Isonzo.

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Fedriga governa, col suo stile. Le riforme di sanità ed enti locali sono ferme al palo (la prima per la pandemia, la seconda perché la promessa sulle Province elettive difficilmente sarà mantenuta), ma l’azione si dispiega in misure delimitate e chiare all’elettorato: sconto su asili e trasporto per gli studenti, limitazione delle case popolari agli stranieri, maglie più larghe per il bonus prima casa e detassazione per le imprese. Il seguito è appeso al Covid e il presidente vuole capire dove indirizzare le risorse a disposizione: così poche che, mentre la Lega tuona a Roma su Recovery Fund e Mes, Fedriga dribbla l’argomento, sapendo che ne deriverebbero risorse importanti per il bilancio regionale.

Quale che sia, Max fa la linea e il seguito applaude. Congressi regionali non se ne fanno da tempo. Di correntismo nessuna traccia e al massimo c’è la vecchia guardia che mugugna rispetto a chi è salito sul treno dopo il 2015. Non manca chi non ne può più dei «selfie con le cotolette di Salvini», ma nessuno si espone. Parlamentari e assessori regionali sono allineati. Il gruppo consiliare è un corpaccione silenzioso: ben 17 eletti, portati in piazza Oberdan grazie all’impressionante exploit delle regionali. La giunta fa e i consiglieri schiacciano il bottone: rari gli interventi, tranne quelli del capogruppo Mauro Bordin. Fedriga vorrebbe alzare il livello: questione di qualità e fedeltà, come si evince dai tentativi riformare la legge elettorale regionale, con una proposta che permetterebbe alle segreterie di partito (leggasi Fedriga) di blindare i candidati in cima alla lista. Il capo assicura con un certo under statement che «in Consiglio decidono i consiglieri e intervengo solo se non si mettono d’accordo», ma ogni volta che c’è un problema Fedriga convoca i suoi, ricorda come sono arrivati lì, minaccia le dimissioni e tutto si appiana. Il presidente esclude rimpasti in giunta, anche se le voci nel partito si rincorrono da mesi.

Alcune vorrebbero la sindaca di Monfalcone Anna Cisint desiderosa di fare il salto nell’esecutivo, ma il governatore intende convincerla a fare il bis nella città dei cantieri, dove nel 2017 è cominciata l’irresistibile ascesa leghista. L’anno successivo arrivarono la vittoria di Fedriga e il successo alle politiche, che produssero un’inimmaginabile sventagliata di eletti in Regione e Parlamento. L’epica di partito canta di un leader che, per amore dalla sua terra, ha rinunciato alle partite cui Salvini lo chiamava da ministro del Lavoro. Scelta sofferta all’epoca ma che si è rivelata azzeccata, vista la parabola del governo gialloverde.

Non c’è leghista che non riconosca che Fedriga poggi il controllo della macchina su un ristretto cerchio magico: il portavoce e consigliere Edoardo Petiziol, l’assessore Pierpaolo Roberti, la caposegreteria del presidente Serena Tonel, i parlamentari Gava e Massimiliano Panizzut. Vicino a Giancarlo Giorgetti, Petiziol è dato come possibile candidato per le politiche (ci aveva provato già prima delle europee); Roberti è l’assessore con più deleghe e il plenipotenziario dei rapporti con il Consiglio; Tonel potrebbe diventare la nuova vicesindaca di Roberto Dipiazza nel 2021.

Le comunali misureranno per la prima volta la tenuta della Lega, di gran lunga primo partito, ma costretta a guardare nel retrovisore l’ascesa di Fratelli d’Italia. Il Carroccio non intende toccare lo status quo e farà correre il civico Dipiazza a Trieste e il patriota Alessandro Ciriani a Pordenone. Con Roberti meno interessato di un tempo al municipio e Paolo Polidori propenso a ruoli di peso in giunta comunale o alla corsa a sindaco di Muggia, la carta di riserva potrebbe essere la candidatura indipendente di Alessia Rosolen. Ma per ora Dipiazza non si tocca. —

4. - continua




 

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