La Julia in Afghanistan: 6 mesi tra pattugliamenti e ricostruzione
TRIESTE «Noi creiamo la cornice di sisurezza; loro, con l’aiuto di altre istituzioni italiane, straniere e internazionali quali l’Onu, devono costruire uno Stato nuovo». L’approccio del generale di brigata Ignazio Gamba, comandante della Brigata alpina Julia e prossimo responsabile del Regional Command West in Afghanistan, un’area grande quanto il Nord Italia, è pragmatico.
Per l’alto ufficiale delle “penne nere” friulane sono le ultime ore in Italia prima di sei mesi di missione nel Paese asiatico, iniziata ieri con il passaggio di consegne dalla Brigata alpina Taurinense. Fuori dal suo ufficio al Comando della grande unità a Udine c’è una coda di ufficiali che attendono le ultime disposizioni. La pianificazione e la preparazione di uomini e mezzi è iniziata da quasi un semestre ma c’è sempre qualcosa da mettere a punto, limare, concordare: lì si rischia davvero la vita, anche se la missione è ufficialmente definita “di pace”. E probabilmente è più saggio non chiedere, a chi è militare, se ne vale la pena: ci sono ordini da rispettare, che discendono da decisioni politiche. Per gli uomini in uniforme il compito è di eseguirli al meglio, portando a termine l’incarico e al contempo garantendo la massima sicurezza possibile alla truppa.
A chi l’interroga se questi ormai più di 11 anni a Kabul dell’International Security Assistance Forze (Isaf), la missione sotto egida delle Nazioni Unite e dal 2003 a guida Nato ha comportato progressi, ha raggiunto obiettivi, Gamba ha la risposta pronta. «Ma da dove siamo partiti, noi in Italia, nel Dopoguerra? Da molto in basso, purtroppo. Certo condizioni e modi di vivere sono differenti e per alcuni versi imparagonabili, ma di passi avanti ne hanno fatti». E aggiunge: «Bisogna dare loro tempo. Solo un completo cambio generazionale può consentire di mutare l’ambito sociale, culturale ed anche quello economico. Del resto, è avvenuto lo stesso da noi a suo tempo». Una spiegazione e una conferma indiretta della decisione dei partner dell’Isaf di non lasciare del tutto la nazione del presidente Karzai dopo il ritiro previsto nel 2014. Resterà un nucleo di forze speciali e di pronto intervento, mentre continuerà il lavoro di addestramento e supporto strategico alle forze di sicurezza afgane.
Il piemontese Gamba, un omone dal viso segnato e dalle evidenti borse sotto gli occhi, così comuni tra chi ha servito in uniforme per tanti anni, ma dal sorriso aperto e l’ottimismo contagioso, conosce bene quest’ultimo aspetto della missione. Tre anni fa, da colonnello, ha comandato un Team di guida operativa e collegamento (Omlt nell’acronimo inglese). Sono i reparti, italiani ma anche di altri contingenti, che venivano affiancati alle varie unità afgane per fornire assistenza, istruzione, appoggio operativo e di fuoco per creare sicurezza nel Paese. «Rispetto a tre anni fa - spiega il generale - ho visto di recente progressi. E infatti anche questi team sono cambiati, nel nome come nell’attività che svolgono. Prima pianificavamo noi le operazioni, seguendoli sul terreno “shohna ba shohna”, spalla a spalla. Ora progettano loro e scendono in campo da soli. Noi forniamo l’appoggio logistico chiesto e la cornice di sicurezza generale, come il supporto aereo, ma non scendiamo più in campo direttamente».
Siamo entrati infatti da qualche mese nella fase cosiddetta “di transizione”, propedeutica al ritiro del grosso dei contingenti: mano a mano che nelle varie aree si ritiene concordamente che l’esercito e la polizia locali possano assumere il controllo della situazione, gli internazionali si ritirano. Spesso dopo solo qualche giorno i talebani occupano quelle posizioni e quelle postazioni: i soldati e specialmente i poliziotti afgani disertano, fuggono o direttamente passano dalla parte dei guerriglieri. Che di coranico hanno poco, se non quando loro conviene. «Nella provincia di Herat, quella a guida italiana - specifica Gamba - non mi risultano finora episodi del genere. L’esempio è quello di Bala Mourghab». La corruzione e l’inaffidabilità specie della polizia afgana restano altissime però. «Hanno cambiato i vertici e anche il modo di lavoro» afferma diplomatico l’ufficiale.
Ma cosa farà la “Julia”, i reparti aggregati e i suoi partner internazionali? «Ci muoviamo sempre sulle stesse tre linee operative - illustra il generale: fornire sicurezza, favorire lo sviluppo, con progetti nei più vari campi, e supportare la governance. Questo è il punto essenziale, specie in questa fase: dobbiamo contribuire affinché vengano riconosciute e rispettate le autorità locali. Che sono scelte dagli afgani, in base a parametri diversi dai nostri, certo, ma che dobbiamo rispettare». Lavorando fianco a fianco, “shohna ba shohna”.
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