La fragilità del pianeta e la paura per il big one
TRIESTE. Arriverà o no, il big one? Se lo sono chiesto in molti, all’indomani del terremoto di magnitudo 8.2 (scala Richter) che il 2 aprile scorso ha colpito Iquique, nell’estremo nord del Cile. Sei decessi e pochi danni il bilancio del sisma, oltre a un prolungato allarme per lo tsunami post- scuotimento. Ma la preoccupazione per un big one non è cessata. Il perché è presto detto. Il Cile giace in una delle zone a maggiore sismicità della terra. Qui, nella parte sudorientale del Pacifico, la placca oceanica di Nazca si scontra con la placca sudamericana, sotto la quale scivola alla velocità di circa 7 cm l’anno con un movimento di subduzione.
Negli ultimi 140 anni circa, la zona di subduzione fra le due placche intorno a Iquique non è stata teatro di fortissimi terremoti: come rileva il Servizio geologico degli Stati Uniti (Usgs), nel nord del Cile l’ultima scossa imponente, di magnitudo 8.8, risale al 1877. Per questo motivo gli esperti parlano di lacuna sismica di Iquique. E siccome in quest’arco di tempo lo spostamento della placca nella zona di faglia è stato di circa 11 metri, si comprende come l’energia ancora intrappolata in loco faccia temere un terremoto più violento.
«Che un sisma di magnitudo maggiore al recente colpisca questa zona non è impossibile. Non sappiamo quando potrebbe svilupparsi, ovvio, ma sappiamo dove: nel punto in cui le placche entrano in contatto ed è presente un elevato coefficiente di accoppiamento, dove cioè le placche sono bloccate una contro l’altra e lo stress è notevole», spiega Karim Aoudia, sismologo del Centro internazionale di fisica teorica di Trieste, coordinatore del gruppo di geofisica della litosfera ed esperto di faglie e meccanica dei terremoti. Proprio Aoudia, con il collega cileno Raul Madariaga, sismologo di fama mondiale, ha organizzato (in tempi non sospetti) all’Ictp un convegno internazionale su megaterremoti e tsunami (12-25 ottobre).
«Non è questo il genere di sismi che dobbiamo temere» aggiunge Aoudia. «Dobbiamo temere gli tsunami che questi sismi causano, e ancor più i terremoti di intensità assai minore, quelli sotto casa, di magnitudo 6.5-7, che colpiscono zone dove la cultura del terremoto non è alimentata adeguatamente, dove la classe politica e la popolazione sono impreparate perché non convivono con questi eventi, come accade in Cile. Dobbiamo investire nella cultura dei terremoti prima che accadano, parlando con gli studenti, nelle scuole».
Che la terra tremi in continuazione non è una novità, tanto che parlare di terraferma suona quasi paradossale. La rete sismica nazionale italiana registra ogni anno circa 1700-2500 sismi di magnitudo superiore a 2.5, mentre il National Earthquake Information Center dell’Usgs rileva a livello mondiale (dal 2000 al 2012) una media di 25600 eventi di magnitudo superiore a 4.5, con un picco positivo di 31.419 terremoti nel 2003, e uno negativo di 14.825 nel 2009. In realtà, il numero complessivo di sismi per anno, inclusi i microterremoti, è dell’ordine di qualche milione. L’apparente incremento di attività tellurica si deve ai sistemi di rilevamento satellitari e Gps, che registrano scosse non percepibili dalla popolazione, o il sistema terra sta attraversando un periodo di iperattività, e un terremoto in Cile può innescare, per effetto domino, eventi simili dall’altra parte del pianeta?
«Ogni terremoto modifica il campo di stress della litosfera, ma per poter dire se e come tale stress si trasferisce fra regioni lontane del pianeta servono calcoli complessi», spiega Marco Mucciarelli, direttore del Centro ricerche sismologiche dell’Ogs di Trieste. «Quanto alla frequenza dei sismi, è vero: apparentemente a periodi di maggiore attività si alternano periodi più tranquilli. Ma se consultiamo il catalogo del Global earthquake model (Gem), una fondazione no-profit che raccoglie i dati dei sismi dell’ultimo secolo, vediamo che nel lungo periodo la sismicità della terra è stazionaria. Il vero problema è l’aumento del rischio dovuto all’aumento della popolazione mondiale che, in un secolo, è passata da uno a sette miliardi. La lezione del Cile? Costruire bene e informare la popolazione, strategie che pagano sempre».
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