La fossa comune di Kirov restituisce i corpi di dodici soldati italiani - Foto e video

Le spoglie dei militari gettati nel cratere a 800 km da Mosca riesumate dai volontari impegnati negli scavi. Il 2 marzo l’arrivo al santuario di Cargnacco

TRIESTE Sono tornati in Italia i corpi di dodici soldati morti durante la campagna di Russia e riesumati nella fossa comune di Shikhovo, nei pressi di Kirov. Le loro spoglie troveranno pace il prossimo 2 marzo, quando saranno inumate nel santuario di Cargnacco in Friuli. Tutto merito di un gruppo di volontari italiani: uomini e donne appassionati di storia militare, che per due estati consecutive hanno rinunciato alle ferie e usato i propri risparmi per partire alla volta della steppa, prendere in mano la pala e scavare dodici ore al giorno, col solo obiettivo di riportare alla luce i resti di militari morti di stenti e malattia dopo la cattura da parte delle truppe sovietiche.



Le istituzioni immobili



La notizia del rinvenimento della fossa di Kirov arriva per la prima volta in Italia su queste pagine nel settembre 2016. Tutto comincia dall’appello della sezione Ricerche storiche del Gruppo speleologico di San Martino del Carso, i cui animatori erano venuti a sapere del ritrovamento grazie ai contatti con associazioni gemelle in Ungheria e Russia, che optano per un canale di comunicazione informale dopo aver ottenuto scarsa attenzione dall’ambasciata italiana. È l’ex senatrice Pd Laura Fasiolo a spingere sul governo affinché Onorcaduti esca dall’immobilismo sulla questione: ma l’organo che si occupa di dare sepoltura ai militi italiani dispersi in guerra ha poche risorse e l’iniziativa delle istituzioni si limita a un sopralluogo in pieno inverno, quando il terreno è coperto da una spessa coltre di neve.

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Reazione insufficiente, nonostante gli impegni assunti dall’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, davanti a un caso rimbalzato in pochi giorni su tutte le principali testate italiane e alle speranze riaccese in migliaia di famiglie che contano ancora un disperso in Russia. Sono centinaia le telefonate e le mail ricevute in quelle settimane da Onorcaduti, con richieste di chiarimenti sulla possibilità di ritrovare un padre, un fratello o un nonno a distanza di settant’anni.

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La storia

La sepoltura si trova lungo un binario secondario della Transiberiana, all’epoca percorsa dai treni carichi dei prigionieri della disfatta del Don, costata la vita a circa 90 mila italiani: poco più della metà del contingente inviato dall’Italia monarchica e fascista. Erano i mesi dell’inverno 1942-1943 e i convogli andavano verso la linea del fronte carichi di armi e soldati sovietici, tornando indietro con un centinaio di militari nemici su ogni vagone.

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Kirov era uno dei tanti pianeti della galassia concentrazionaria dell’Urss: nove campi in tutto, in cui risultavano finora scomparsi duemila italiani. I prigionieri, stremati dal freddo e dalla fame, erano diretti agli ospedali dell’area: con la manodopera tutta mobilitata nelle operazioni belliche, i russi volevano infatti rimettere in piedi gli italiani, i tedeschi, gli ungheresi e i rumeni catturati per farli lavorare come forzati.

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Chi moriva durante il viaggio era gettato fuori dai vagoni in fosse aperte lungo i binari, coperte dai rami e da qualche centimetro di terra depositati lì dalla mano pietosa degli abitanti del posto. Le prime ossa si trovavano non a caso a una spanna dalla superficie. Quel luogo non era un segreto per chi abita nei dintorni di Kirov, ma i residenti hanno cercato di rimuovere il ricordo, finché non sono cominciati i lavori per la costruzione di alcune villette. È a quel punto che la storia è riemersa dalle nebbie e con essa i corpi dei poveri soldati mandati a morire in Russia dalle forze dell’Asse.

Il ritrovamento

La sepoltura di Shikhovo si trova a 800 chilometri da Mosca e prima del 2016 era sconosciuta in Italia. Il numero di soldati rinvenuti non si avvicina certo ai 20 mila ipotizzati inizialmente dai volontari russi, con una stima ritenuta subito poco probabile dagli esperti italiani. Alla fine degli scavi sono emersi 1.657 corpi, in stragrande maggioranza ungheresi. I piastrini rinvenuti sono 79 di cui 13 italiani, 54 ungheresi e 12 tedeschi: proporzioni che fanno stimare oltre un centinaio di italiani lì sepolti. Le targhette ritrovate sono poche rispetto ai caduti, perché venivano requisite dai russi o gettate dai soldati, che le consideravano premonizione di sventura.

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La maggior parte dei militari è rimasta in Russia, perché è stato impossibile identificarne con certezza i resti: sono stati così tumulati assieme ai compagni di sventura nel cimitero dedicato ai prigionieri di guerra nel paese di Falyonki, a 50 chilometri da Shikhovo. I dodici che hanno fatto ritorno sono invece inequivocabilmente italiani, riconosciuti grazie a brandelli di divisa o altri oggetti. Soltanto due di essi hanno nome e cognome, grazie a piastrini leggibili e ritrovati a contatto con il corpo. Un alpino e un artigliere, rispettivamente di Monchio delle Corti (Parma) e di Bracciano. Le altre targhette erano quasi sempre disgiunte dal corpo, ma quelle ben conservate hanno permesso almeno di individuare i nomi di alcuni caduti, comunicati alle famiglie d’origine.

I volontari

A mettere in moto i gruppi di appassionati di Seconda guerra mondiale è la nota diramata da Onorcaduti dopo il sopralluogo a Kirov, in cui le autorità spiegavano che i Memoriali militari russi ritenevano «poco probabile giungere all’individuazione delle generalità dei singoli caduti o anche alla sola definizione delle rispettive nazionalità». Impossibile accettare che tutto si limitasse a piantare una lapide di commemorazione e metterci sotto un lumino.

Comincia così il tam tam fra le associazioni: la Gotica toscana di Scarperia, il Museo della Seconda guerra mondiale di Felonica e l’Associazione Linea Gustav di Cassino. Sono loro a entrare in contatto con i volontari dell’associazione russa Dolg, che a Kirov conta su un migliaio di ragazzi pronti a scavare. Dolg ha già delimitato l’area e fatto i primi sondaggi che confermano la presenza di italiani.

Le campagne di scavo vengono organizzate nelle estati 2017 e 2018. Ci lavorano soprattutto russi, sotto la direzione della Vdk, ente tedesco omologo di Onorcaduti che ha gestito e pagato i costi per l’apertura della fossa. Ma sono presenti anche le squadre italiane: una trentina di persone, che si battezzano Italian Recovery Team. Il metodo è da archelogi. Prima l’opera di spillonatura, come nella ricerca dei corpi dopo una valanga. Poi la pala e infine la cazzuola, per non danneggiare i resti. Si lavora da mattina a sera col fango alle ginocchia. Ogni giorno le buche vengono svuotate con un’autopompa e con i secchi, perché a Kirov piove e non mancano né il freddo né le zanzare.

La mostra

I Memoriali russi hanno concesso ai volontari di riportare in Italia una parte degli oggetti recuperati a Kirov. Si tratta di divise, cappotti, scarponi, medagliette religiose ed emblemi di guerra, come la croce della Julia per commemorare la campagna di Grecia e lo stemma della Divisione alpina cuneese. E ancora pipe, stellette, monete e perfino preservativi. Tutto visibile nella mostra che sarà inaugurata sabato prossimo nel municipio di Romans d’Isonzo, dove sarà visitabile fino al 22 febbraio. L’esposizione verrà poi ospitata in altre località, prima di trovare una sede definitiva. —


 

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