«La decisione presa da Arrigo e Monika? Dignità, libertà e contesto i principi guida»

TRIESTE La storia di Arrigo Crisciani e Monika Schnell è emblematica di un dibattito culturale e politico che l’Italia nei prossimi anni sarà destinata ad affrontare. Se da un lato i due anziani coniugi triestini hanno scelto di porre fine alle sofferenze dei propri corpi in Svizzera, lo scorso 24 febbraio, dall’altro il Parlamento italiano negli ultimi anni è stato più volte chiamato – senza successo – a legiferare sul tema del suicidio assistito.
Questo, perlomeno in linea teorica e limitatamente ad alcune circostanze, è stato reso possibile lo scorso autunno, quando la Corte costituzionale ha emesso una storica sentenza sul caso che ha coinvolto Marco Cappato a seguito della morte di Fabiano Antoniani, detto dj Fabo. A spiegare il quadro normativo attualmente in vigore nel nostro Paese è lo stesso Cappato, esponente dei Radicali e dell’Associazione Luca Coscioni: «La Legge 219 del 2017, che disciplina il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (Dat), prende in considerazione il testamento biologico. Il Parlamento non ha tuttavia mai dibattuto i temi dell’eutanasia e del suicidio assistito, nonostante a proposito vi sia una proposta di legge di iniziativa popolare depositata nel 2013. Nemmeno i rilievi della Corte costituzionale sono stati discussi, benché questa per due volte abbia invitato il Parlamento a esprimersi: sia a seguito della prima ordinanza fatta un anno e mezzo fa sul processo a mio carico, sia al momento della sentenza definitiva».
Prosegue Cappato: «La Corte ha definito la possibilità, in alcune limitate circostanze, di ottenere il suicidio assistito in Italia, invitando però appunto il Parlamento a legiferare a riguardo. La possibilità di essere aiutati a morire, dunque, in linea di principio è riconosciuta ma non ci sono regole né procedure affinché tale diritto diventi effettivo. Al momento io, assieme a Mina Welby, sono imputato per un altro processo, legato alla morte di Davide Trentini. Anche lui ha scelto il suicidio assistito in Svizzera ma non era attaccato a una macchina: rientra nei casi previsti dalla Corte o meno? Se Camera e Senato non si esprimeranno, toccherà ancora una volta alla magistratura».
La filosofa Michela Marzano, professore ordinario all’Université Paris Descartes, spiega quali siano i presupposti teorici su cui si fondano simili possibilità, dal punto di vista della bioetica: «Il principio guida è il rispetto della dignità e dell’autodeterminazione della persona. L’etica poi è sempre un’etica contestuale: vanno considerate le circostanze. La vicenda dei due coniugi triestini risuona particolarmente forte perché è stata resa nota in un momento eccezionale: tante persone stanno morendo da sole, contro la loro volontà, a causa della pandemia. Poco prima invece loro due hanno avuto la possibilità di scegliere di andarsene, tenendosi per mano, assieme: una decisione portata avanti di comune accordo, legittima in quanto priva di egoismi o di danni arrecati a persone terze». Marzano sottolinea l’importanza di considerare ogni caso singolarmente: «Non si tratta di dire sempre sì a ogni domanda di morte bensì di ascoltare e contestualizzare, ancora una volta in base al principio dell’autonomia dell’individuo: se cancelliamo questa, cancelliamo la soggettività, appunto l’ascolto, in definitiva l’umanità. Quando ha fatto scalpore il controverso caso dell’adolescente Noa, ad esempio, sono stata la prima a dire a caldo “come si può”. In quell’occasione ho scelto di rendere pubblico il mio tentativo di suicidio, raccontando come oggi sono contenta che non sia andato a buon fine e di essere uscita da quella situazione di sofferenza. Diversa è la condizione di due anziani che scelgono serenamente».
Passando all’ambito della fede, un punto di vista particolare è quello del teologo Vito Mancuso: «Nell’apprendere la notizia ho provato un senso di rispetto e di dispiacere. Scelte individuali che pongono fine a delle vite non possono far sorgere in me un sentimento di gioia, ovviamente. Se c’era piena consapevolezza, tuttavia, chi sono io per dire qualcosa sulla loro decisione? Tante libertà all’inizio non esistevano e sono state ottenute perché qualcuno per primo ha trasgredito. Mi sembra che questa sia la direzione verso cui stiamo andando». Per Mancuso «la vita creata è come una spirale ascendente che parte dalla vita biologica, il bios degli antichi Greci, e arriva al suo grado più alto nella vita spirituale o noetica. Quest’ultima è l’ambito della libertà: anch’essa è sacra, non solo la mera esistenza biologica. Rispettare la vita allora può significare anche rispettare le singole scelte di chi, non sentendo più in armonia queste rispettive componenti, prende delle decisioni su se stesso, responsabilmente e senza ferire gli altri».
Così il gesuita Luciano Larivera, direttore del centro culturale Veritas di Trieste: «Quelli della bioetica sono temi difficili anche per la coscienza cristiana. In passato la morte ti capitava e basta, mentre ora ci si chiede: quale morte voglio assumere? Come mi rapporto alla sofferenza, mia e dei miei cari? La Chiesa, come è noto, insiste sulla cura e sull’accompagnamento di chi soffre, senza contemplare scelte troncanti. Come prete, se qualcuno dei miei fedeli mi chiedesse un consiglio, gli proporrei un altro percorso rispetto a quello del suicidio assistito. E offrire valide alternative è compito della società». Prosegue: «Sono consapevole pure dei paradossi. Talvolta qualcuno vuole ricorrere al suicidio assistito perché soffre, e soffre perché la stessa tecnologia gli ha impedito di morire naturalmente in precedenza. Dal punto di vista cattolico il timore è però un altro: che passi il messaggio per cui, se sono disperato, posso ricorrere al piano B e cioè alla morte. Elevato a sistema sanitario, come nel caso dell’Olanda, ciò risulterebbe quantomeno problematico. Dopodiché lungi da me voler giudicare i singoli casi, specie se particolarissimi come quello dei due signori triestini, che hanno avuto estrema dignità».
Monignor Ettore Malnati, vicario episcopale per il laicato e la cultura della Diocesi di Trieste, parla di «cultura», che «va contro il rispetto della vita anche nella sofferenza», di «anti-messaggio che umilia tutti coloro che si prodigano per dare dignità ad ogni aspetto della nostra esistenza». La vita, aggiunge, «è un dono grande, anche nel suo naturale momento ultimo». —
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