La città portafortuna, l’arrivo del bebè e quei ravioli fumanti serviti a San Giacomo

la storia
«Trieste mi ha portato fortuna, qui sono riuscita a coronare un sogno che coltivavo da molto tempo e anche per questo ho deciso che era la città giusta in cui fermarmi». Lina Jiang ha 48 anni, ma ne dimostra molti meno. Ogni giorno all’interno del suo locale accoglie tutti con un sorriso e, a chi chiede informazioni sulle sue origini o sul percorso che l’ha portata fin qui, racconta volentieri la sua storia.
È arrivata in Italia nel 1995, ha scelto di abitare prima a Napoli, poi a Udine e infine si è stabilita insieme alla famiglia 14 anni fa a Trieste, dove da qualche mese ha aperto un’attività tutta sua. Titolare di un ristorante a San Giacomo, vive con il marito, il figlio più grande laureato da poco all’Università, e uno più giovane, adolescente. «Ho lasciato la Cina negli anni ‘90 - racconta -. Volevo scoprire l’Europa e il mondo, avevo voglia di viaggiare, di spostarmi e di conoscere nuovi Paesi, nuove culture. In particolare mi incuriosiva l’Italia, perché molti ne parlavano bene, così ho scelto di provare a fermarmi prima a Roma. Dai racconti il Paese sembrava affascinante e si è rivelata proprio così».
Per Lina i primi anni non sono facili, in una città grande e caotica. Uno degli ostacoli più duri da affrontare era la comunicazione. «È stato molto difficile imparare la lingua - sottolinea subito -. Ancora adesso penso dovrei migliorarla, anche se me la cavo e aiuta il contatto costante con la gente. A Trieste, in questo e su altri fronti, ho trovato fin da subito persone molto disponibili, che mi hanno aiutata e hanno avuto pazienza anche quando, ad esempio, dovevo recarmi negli uffici per compilare documenti o pratiche da sbrigare e non era facile per me capire tutto ciò che mi veniva richiesto. In più ho avuto immediatamente la sensazione di una città multiculturale, accogliente e poi anche esteticamente mi è piaciuta fin dai primi giorni».
A convincere Lina che questo era il posto giusto è stato però un altro fattore, personale, che si è rivelato determinante, interpretato come una sorta di segno del destino. «Da tempo volevo avere un secondo figlio, che non arrivava - spiega -. Inaspettatamente a Trieste sono rimasta incinta dopo pochi mesi. Ho pensato fosse per l’aria buona, perché si vive bene e forse anche per un po’ di fortuna. A quel punto non ho avuto dubbi: era il posto giusto dove rimanere e sono molto felice di aver fatto crescere i miei figli qui. È stupenda, la trovo viva, bella, tanto bella. E poi mi ha colpito anche una parte della storia della città, che ho conosciuto attraverso i racconti di alcuni cinesi, che già lavoravano qui. Mi hanno spiegato delle tantissime persone che un tempo arrivavano dall’ex Jugoslavia per comprare un po’ di tutto e molti connazionali mi hanno detto che c’era e c’è molta attenzione al commercio al dettaglio».
Il primo impegno di Lina è stato un negozio di abbigliamento, poi è arrivato il primo bar, avviato in via Baiamonti e quello successivo, a San Giacomo. Qualche mese fa ha raggiunto anche un altro obiettivo: aprire un ristorante da sola, proponendo una soluzione che prima mancava a Trieste. È rimasta nello stesso locale dove era operativa, in via San Giacomo in Monte, cambiandolo completamente, trasformandolo in uno spazio dove i triestini possono gustare una particolare specialità della sua terra. «È una ravioleria, unico locale cinese in città che propone solo ravioli, cucinati in tanti modi diversi. Prima ho provato con la formula del bar, che funzionava ma non era l’idea migliore. Ho iniziato a pensare cosa non c’era a Trieste, cosa avrei voluto far conoscere agli altri. Così è nata la ravioleria “Da Lina”, volevo buttarmi in una nuova avventura, più impegnativa sicuramente ma che mi sta già dando buone soddisfazioni. La gente è interessata, è curiosa, viene ad assaggiare, a provare e vedo che sono contenti». E proprio i clienti spesso si soffermano a chiederle informazioni sul suo Paese d’origine. «Ogni tanto domandano la mia storia, altre volte notizie sulla Cina, perché rispetto a un tempo forse attira molto di più le persone, e vorrebbero avere qualche indicazione sulle nostre tradizioni. Rispondo senza problemi e mi fermo a parlare con piacere se vogliono scoprire qualsiasi cosa».
Mentre racconta tutto il percorso che l’ha portata a Trieste, Lina indossa il grembiule e ogni tanto si sposta in cucina, dove contribuisce ogni giorno senza sosta alla preparazione di centinaia di ravioli, insieme al cuoco, prima di tornare nella sala principale per dare il benvenuto ai clienti. Accanto a lei, a darle una mano, spesso c’è il figlio più grande Qian Zhang, che ha ideato i menù speciali, che le persone possono srotolare, per scorrere tutti i piatti proposti dalla madre. «Ci mettiamo tanta passione - aggiunge Lina - siamo appena all’inizio, abbiamo aperto da pochi mesi, speriamo di procedere sempre meglio. Si lavora tanto, ma solo così pensiamo sia possibile ottenere ottimi risultati».
Come molti suoi connazionali anno dopo anno si è gradualmente allontanata dalla Cina, anche per le lunghe distanze con la sua cittadina d’origine. «Ma soprattutto perché la mia vita è ormai a Trieste - ribadisce - sono felice per tutto quello che abbiamo costruito. In più tra il lavoro, i figli e le tante cose da fare è difficile tornare in Cina. L’ultima volta - ricorda - ci sono stata due anni fa e devo dire che ormai la nostalgia non la sento più. Mi sento integrata, a mio agio, probabilmente sentirò il bisogno di rientrare nella mia terra più avanti, quando sarò vecchia. Un detto cinese cita “dove si nasce bisogna tornare”, questa è la tradizione e credo sarà così anche per me, ma per ora mi godo a pieno questa città».
Lina si è adattata alla vita triestina e italiana, ma non abbandona alcune usanze, che fanno parte ormai da sempre della sua quotidianità. «Niente forchetta, non mi sono ancora abituata a usarla, preferisco le bacchette e anche per il cibo amo molto la nostra cucina, mangio soprattutto riso e in generale piatti cinesi. C’è però una specialità triestina che mi piace molto, è la jota e per quella ovviamente abbandono le bacchette». —
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