La città personale e quella vera, Trieste si sdoppia nel racconto di Giuseppe Longo

Quando giunsi a Trieste nel 1955 avevo 14 anni ed ero portatore sano del morbo letterario. Non lo sapevo, ma fu lui a manifestarsi, ridestato da quella città esotica, distesa tra il golfo e le colline, pregna di un fascino che quando ti prende non ti lascia scampo. Subito dopo il mio arrivo comprai una grande mappa, la stesi sul letto e prima ancora di percorrere le strade e i quartieri di Trieste, di scoprirne la folla e i colori, seguivo col dito e con gli occhi le sinuose tracce sulla pianta, perdendomi nel suono di quei nomi misteriosi (Chiàrbola Rozzòl Sèrvola Roiàno...), costruendomi dentro una città personale, che solo a poco a poco, negli anni, per squarci e rivelazioni progressive, doveva cedere, e non del tutto, alla città reale. E quante domande mi suscitavano i nomi di quei luoghi: che cos’era la Fabbrica Macchine, com’era il cielo sopra lo Scalo Legnami e, soprattutto, quali fumi e vapori uscivano dagli altiforni allineati della Ferriera, dinosauro scosso da fremiti, arcana tumefazione del suolo dalla quale, come da un favo purulento, usciva alla luce, con l'aiuto di gnomi industriosi, una materia nascosta fin dalle origini del mondo, diffondendosi per l'aria le ignee fermentazioni, i miasmi di quel vorace metabolismo, tra lo sferragliare dei carrelli, il rombo dei treni carichi di antracite, lo stridore dell'acqua gettata sulle braci per fare il coke.
E pian piano scoprii la Trieste vera: le rotaie dei tram, le strade gremite, i caffè, la vastità dei moli e delle rive, gli edifici delle case di spedizione, le gru del porto, le vecchie scuole che sfidano ancora per imponenza i palazzi moderni. Subito conobbi la bora e scoprii il biondo delle ragazze triestine, un biondo diffuso e inebriante, che mi ossessionava e non mi dava requie, per le strade, a scuola, sui tram, fissandovi gli occhi con un languore mescolato: e così veniva precisandosi quella tormentosa promessa di inaudita e paradisiaca felicità; tormentosa, quella promessa, perché rinviata sempre, in fuga per i sentieri del destino. E poi città della musica, Trieste, della cultura, del teatro, ma anche, più tardi, città della scienza. E le stradine della città vecchia, e poi san Giusto, san Vito, piazza Unità aperta sul golfo e poi le osterie, i buffet, i locali, i caffè... E la tremenda Risiera di San Sabba.
Una molteplicità di aspetti, di sfaccettature, di tasselli difficili da ricomporre: fu quindi inevitabile che in questo clima di sovreccitazione sensoriale e intellettuale cominciassi a scrivere. Così, oltre la città del vento, dei traffici, delle squadre sportive, scoprii la città di carta. Una città che si moltiplicava nella scrittura per tentare di dare un senso alla vita e alla storia, per medicarsi le ferite e per inventarsi un’altra esistenza, più felice o meno dolorosa. Un ripiegarsi su se stessi, una fuga dalla realtà, perché vita e scrittura sono in qualche misura incompatibili. Non mi bastò più il nutrimento che forniva a noi studenti d’ingegneria la generosa greppia dell’università, ero tormentato da domande che non riuscivo neppure a formulare, nei racconti che scrivevo la vita si trasformava in letteratura. Incontrai così alcuni compagni di scrittura, ma mi sentivo isolato, incapace di diventare triestino e incapace di mantenere i contatti con le mie radici romagnole.
Cominciai a scrivere racconti che esprimevano la malinconia irremeabile e insieme lo slancio furibondo della vita, il nodo inestricato dell’amore, il cieco strazio dell’infermità, la nostalgia dei giorni sereni e inconsapevoli. E in questi racconti, come nei romanzi e nei drammi che seguirono, Trieste era sempre presente, se non direttamente certo in filigrana. Anch’io trasformavo, come tanti triestini, la vita in letteratura. E continuo a farlo. —
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