La casa degli "ultimi": in 10 anni un tetto per 3.300 persone

Festeggia il decennale il dormitorio di via Udine gestito dalla Comunità San Martino al Campo fondata da don Mario Vatta
Don Mario Vatta
Don Mario Vatta

Il profumo di detersivo, i pavimenti tirati a lucido, le coperte ben riposte sui letti. «La mattina presto, quando si svegliano, l’odore non è esattamente questo…», sorride Miriam Kornfeind, coordinatrice della Comunità di San Martino al Campo. L’accompagna suor Gaetana Dellantonio, responsabile della casa. Loro, gli ospiti, sono usciti da un pezzo.

Torneranno la sera, in fila, coi loro cappotti rattoppati, le scarpe sfondate. Ma di giorno al dormitorio di via Udine c’è sempre qualcuno. Volontari, soprattutto. Chi aggiusta una lampadina, chi riordina la biancheria. In soggiorno hanno appena finito di scaricare gli scatoloni con frutta e verdura. Roba vicina alla scadenza che non può più essere venduta dai supermercati, ma ancora buona. Succhi, biscotti, pasta. Il caffè, d’altronde, non lo hanno mai comprato: arriva sempre, puntuale, da dieci anni. Tanto è passato da quando un gruppo di volontari, insieme a don Mario Vatta, ha pensato che sì, si poteva fare. Che un tetto, una doccia calda, un piatto pieno e un cuscino vero su cui riposare, non erano irrealizzabili. Dieci anni, infatti.

L'open day al dormitorio (Foto Massimo Silvano)
L'open day al dormitorio (Foto Massimo Silvano)

C’è molto da raccontare e la Comunità lo ha fatto proprio ieri aprendo le porte di via Udine dalle dieci e mezzo all’una; e poi ancora, dalle tre e mezzo alle sette di sera. Un “open day” per mostrare alla città che l’accoglienza è possibile, anche se si tira avanti con le donazioni e il volontariato.

Per tenere in piedi tutto servono 100 mila euro l’anno. «L’attività - riflette Claudio Calandra di Roccolino, presidente della Comunità di San Martino al Campo - non gode di contributi pubblici diretti, ma viene sostenuta grazie ai benefattori, tra cui numerosi triestini. È bello pensare che si concretizza la generosità di tanti, ai quali va il più sincero ringraziamento».

Si continuerà il 23, con una festa alla quale parteciperanno le istituzioni. Ci sarà la testimonianza di don Mario e la mente tornerà al 2003, quando in Comunità ci si accorse che portare panini e coperte in stazione per dare una mano ai senza casa, specialmente nella stagione fredda, non bastava. L’unico dormitorio a Trieste, il “Gozzi”, la struttura comunale aperta nel dopoguerra, era stato chiuso parecchi anni prima.

«Ci siamo resi conto che il bisogno era prepotente - dice Miriam -, la gente che incontravamo nelle vicinanze della stazione era fragile - spiega -, logorata dalla strada».

Per rimettere in sesto l’appartamento di via Udine, di proprietà dell’Ater e abbandonato da anni, servono soldi. I privati iniziano a farsi avanti e così pure la Fondazione CrTrieste, che mette quanto serve per la ristrutturazione e anche per gli arredi. Il 23 dicembre 2004 si apre. Da quella volta, ininterrottamente, San Martino ha dato un tetto e un letto a 3.324 barboni. La metà stranieri: una novantina le nazionalità che sono passate di qua.

«Negli ultimi anni - osserva Miriam - ci sono però anche vari triestini, persone che hanno perso il lavoro, e che non riescono a trovare sufficiente risposta dai servizi sociali, perché la domanda di aiuto è cresciuta esponenzialmente».

I pernottamenti in questi 10 anni sono stati 91.250, offerti grazie all’impegno di una sessantina di volontari all’anno, giovani e pensionati. Ben 100 mila tra cene e colazioni i pasti somministrati. A San Martino li hanno contati, giorno dopo giorno. Perché tutti hanno un nome, un cognome «e una dignità che hanno perso per strada», suggerisce suor Gaetana.

Volti con cui i volontari devono fare i conti ogni sera, alle otto, perché non tutti quelli che si affacciano possono entrare: la casa è pensata per 25 posti. Altrettanti restano fuori. Si fa a rotazione e si dà precedenza agli anziani, a chi ha problemi di salute o a chi è uscito dal carcere e non sa dove andare. «La valutazione - interviene la suora - è difficile». Intende: è dolorosa. Ma in stazione il panino, distribuito ogni giorno anche in collaborazione con Sant’Egidio, c’è sempre. Non tutti però troveranno un tetto. Qualcuno si arrabbia, altri comprendono. Lo capì quell’anonimo “clochard”, come ricorda nel suo libro Fabio Denitto, un volontario, che non aveva ricevuto il letto, e se ne andò dicendo: «Pazienza, questa sera andrò all’hotel mille stelle».

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