La Brigata Julia rientra da Herat ha fatto da "prof" agli afgani

Gli alpini del triestino Risi hanno insegnato
pianificazione agli afgani . E ora arrivano i loro manager
Il generale Risi, a sinistra, illustra una pianificaizone
Il generale Risi, a sinistra, illustra una pianificaizone

di Pier Paolo Garofalo
Una netta diminuzione delle diserzioni tra le file dei kandak, i battaglioni delle forze di sicurezza afgane, il 75% delle giovani in età scolare che frequenta le classi, un deciso calo delle donne in burqa, nessun attacco “green on blue”, cioè da "forze amiche", nessuno dei 42 distretti nei quali è suddivisa la Regione Ovest perso e finito in mano ai talebani. Si misura così il successo della missione di sei mesi a Herat dalla quale la Brigata alpina Julia di Udine, al comando del generale triestino Michele Risi, è tornata. «Una missione nuova con compiti per noi nuovi, finora svolti dalle forze speciali, una missione per la quale fino dall’arrivo dei pacchetti d’ordini abbiamo dovuto metterci in gioco e reinventarci» specifica compiaciuto l’alto ufficiale a margine della cerimonia di ritorno svoltasi alla Caserma Spaccamela alla presenza del comandante delle Forze operative terrestri, generale Alberto Primicerj.
L’Operazione Resolute Support, che le “penne nere” friulane hanno iniziato per l’Italia dopo l’Isaf e che la Brigata Aosta, succedutale, dovrebbe chiudere a Herat nei primi mesi del 2016 prima del ripiegamento su Kabul, è infatti nuova. E prevede essenzialmente compiti di consulenza e supporto solo in settori chiave come l’intelligence, l’evacuazione medica, la sorveglianza del campo di battaglia, il supporto aereo se necessario. Non più militari italiani anche sul terreno, fianco a fianco agli afgani nei combattimenti, quali istruttori e “tutor” ma pure in appoggio diretto. «Dovevamo e dobbiamo - spiega Risi - fornire agli afgani una capacità di pianificazione e condotta delle operazioni autonoma. È questo il passo per il salto di qualità». Un miglioramento che permetterebbe all’Italia e alla comunità internazionale che hanno speso nel Paese asiatico sangue, sudore e soldi per 12 anni di non vedere gettati al vento tutti questi sacrifici.
Per il momento il migliore termometro di una progressione finalmente strutturale, almeno nella Regione Ovest, quella a responsabilità italiana, fatta maturare passo dopo passo dai vari contingenti avvicendatisi e finalizzata dalla Brigata Julia, è l’arrivo questo mese in Friuli di una delegazione di 20 imprenditori afgani, di settori dal tessile al meccanico. Finalmente a spese proprie. Un particolare che la dice lunga sul buon lavoro svolto con la Confartigianato udinese, che ha inviato a Herat una manciata di formatori in idraulica, sartoria, estetica e carpenteria suscitando l’interesse e infondendo la fiducia necessaria ai manager a compiere il viaggio transcontinentale.
Una “scommessa” vinta, indirettamente, nel campo della sicurezza, senza la quale nessun business può svilupparsi. «Dei 42 distretti della Regione - racconta il giovane generale triestino - abbiamo rischiato di perderne solo due, nel turbolento Nord ma alla fine gli afgani, con i nostri consigli tattici, sono riusciti a respingere la minaccia». Consigli offerti da 75 “advisor” italiani protetti nelle loro attività quotidiane da quelli che Risi definisce gli angeli custodi, gli uomini dell’8° Reggimento alpini. Che hanno permesso anche di contenere le perdite afgane: in sei mesi 150 morti, dei quali 120 per fuoco diretto, a riprova della propensione all’iniziativa dei comandi afgani e della diminuzione degli ordigni esplosivi improvvisati.
Si tratta di scontri che coinvolgono, di volta in volta, decine e decine di “insurgent”. Non sono battaglie campali ma sintomatiche di un quadro certo migliore che a Kunduz, come si constata tragicamente in questi giorni, o nel “tempio” dei talebani e dei coltivatori di oppio, l’Helmand.
Oltre alla sicurezza, gli alpini e i loro colleghi dei reparti d’apopoggio hanno dovuto occuparsi d’”impacchettare” 4 chilometri lineari di mezzi e materiali per il rimpatrio, prima via aerea e poi via mare.
Reparti di supporto che non si sono risparmiati, collezionando numeri notevoli. In particolare il reparto dell’Aviazione dell’Esercito, dei reggimenti “Antares” e “Rigel” di Casarsa della Delizia: con soli 80 uomini ha fatto volare ben 8 elicotteri, quattro di ricognizione e scorta e altrettanti da trasporto.
L’Aeronautica militare con 64 unità non ha solo svolto ruoli di mentoring ma ha anche gestito l’intero aeroporto internazionale di Herat, istruendo al contempo a tale compito colleghi locali.
Un panorama luminoso ma al cui orizzonte si staglia una nuvola, nera e netta. La nostra Forza armata terrestre a suon di sempre più numerosi e vari incarichi, anche “spuri”, a suon di tagli a personale, mezzi e fondi per la gestione e l’addestramento, rischia di perdere la capacità di svolgere il suo ruolo primario, la sua ragion d’essere, il suo “core business”: affrontare e sperabilmente vincere una minaccia armata strutturata e prolungata per un certo periodo di tempo. In pratica la capacità di combattere una battaglia “vera”, se non una guerra. Non è bellicismo ma la semplice constatazione che, perdendo identità e tecnica, oltre che potenzialità, anche operazioni come quelle a Herat rischiano di essere se non replicabili, credibili ed efficaci.

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