La Brigata Julia parte per Herat Li comanda un triestino
Missione non più "combat" ma non per questo meno rischiosa
«Sappiamo che ogni turno di fine missione presenta rischi aggiuntivi ma siamo preparati; saremo anche meno numerosi ma faremo squadra tra noi e i nostri alleati; faremo leva sui nostri partner afgani: dobbiamo fare bene. Perché la nostra missione a Herat è il riassunto di 14 anni di presenza del Tricolore in quel Paese. Non possiamo permetterci di sbagliare, per il buon nome dell’Italia, dell’Occidente ma soprattutto perché lo dobbiamo ai nostri 54 Caduti in quella terra». Le parole del generale Michele Risi, comandante della Brigata alpina Julia, risuonano misurate ma ferme nell’ex chiostro conventuale della Caserma Di Prampero di Udine che ospita la cerimonia di saluto della grande unità da montagna in partenza per l’Afghanistan.
Le “penne nere” friulane, al comando del giovane generale triestino, di fatto apriranno la Missione Resolute Support (Supporto risoluto), che nominalmente dal primo gennaio scorso è succeduta alla ”Isaf”, sempre a guida Nato.
E il fatto che sia un’operazione “non combat”, cioè senza ingaggio diretto degli italiani negli scontri con criminali e guerriglieri talebani e non, lascia comunque pochi dubbi sulla complessità dell’incarico. «Saremo circa 700 uomini e donne, in gran parte italiani ma con una buona aliquota di spagnoli e poi ungheresi e sloveni che da anni sono inseriti nella Multinationl Land Force a guida Brigata Julia, ma anche ucraini e lituani, oltre a civili e contractor statunitensi» aveva spiegato Risi poco prima dell’inizio della cerimonia. Un saluto sobrio, anzi austero nell’esiguità dei reparti schierati ma accogliente nel dopo-sfilata, denso di significato senza essere retorico. Una cerimonia “benedetta” dal comandante delle Forze operative terrestri, generale Alberto Primicerj (“sono sicuro che farete bene e sull’eventuale presenza dell’Isis manteniamo la guardia e osserviamo”) e dal sindaco di Udine Furio Honsell.
La presenza a Herat, nella parte Ovest del Paese, quella meno problematica per la sicurezza ma certo non pacificata, sarà di 500 uomini di media, come concordato dalla politica, poiché il personale diminuirà: in ottobre l’ultimo alpino lascerà Herat. Nel frattempo si appoggeranno e si aiuteranno a sviluppare le capacità di analisi, pianificazione e di condotta delle operazioni delle forze di sicurezza afgane, 190mila uomini dei quali 150mila dell'Esercito nazionale afgano (Ana nell'acronimo inglese).
Nel mandato del quarto turno di missione della Brigata Julia in Afghanistan anche l'assistenza alla logistica e all'addestramento, oltre che dei militari pure della polizia grazie a un'aliquota dei Carabinieri, mentre "Resolute Support" fornirà direttamente assetti specialisti che Kabul non ha o non è in grado di porre in campo, come l'intelligence, la videosorveglianza del campo di battaglia, l'evacuazione medica aerea. Il tutto "shona ba shona", spalla a spalla come si dice in gergo locale, con gli uomini del 207° Corpo d'armata afgano, che presidia il Settore Ovest del Paese quello di Herat, sede dell'ormai unica base tricolore. Dove il capo dell'esercito è di etnia tagika, quello della polizia hazara e della polizia confinaria pashtum. Un buon viatico, almeno sembra, per un'altra opera, davvero particolare quanto aleatoria, che le "penne nere" friulane sono chiamate a svolgere: favorire, contro le spinte centrifughe di natura etnica, la coesione nazionale tra le forze di sicurezza. Come? controllando il corretto flusso dei finanziamenti per il settore e vigilando sulle spese.
"In pratica - aggiunge Risi - opereremo con team di militari molto specializzati nei singoli settori di cooperazione, travasando buone pratiche ed esperienze, anche se lasceremo che gli afgani sviluppino loro procedure operative, del tutto particolari ma rivelatesi efficaci in questo contesto". L'8° reggimento alpini fornirà il personale dedicato alla protezione delal forza mentre per eventuali emergenze e minacce dirette resteranno schierati sull'aeroporto di Camp Arena gli elicotteri da ricognizione e attacco Mangusta.
"Se ne vale la pena - si chiede retoricamente il generale Risi davanti ai giornalisti -? Cito solo un dato, oltre alla diffusa scolarizzazione attuale e alle nuove infrastrutture per lo sviluppo, quello che mi ha colpito maggiormente: in Afghanistan nel 2003 l'aspettativa di vita era calcolata in 43 anni, ora è di 62, 63. E' merito anche dell'Italia".
Riproduzione riservata © Il Piccolo