La Biennale dei record: 500mila persone nel “palazzo” di Gioni
di Giovanna Pastega
VENEZIA
Il Palazzo Enciclopedico ieri ha per l’ultima volta aperto al pubblico le sue ‘pagine’ d’arte contemporanea, arrivando a toccare in chiusura di questa 55° edizione della Biennale di Venezia quasi il mezzo milione di visitatori. Curata da Massimiliano Gioni, l’esposizione d’arte contemporanea di quest’anno porta a casa il non trascurabile traguardo di aver superato i risultati di afflusso dell’ultima edizione e soprattutto di aver incrementato il numero dei giovani visitatori e in particolare il cosiddetto popolo degli zainetti (gli alunni delle scuole).
Tra i record di questa mostra il raddoppio degli artisti presenti e dei giornalisti partecipanti (oltre 7.000). Insomma un bilancio più che positivo per il presidente Paolo Baratta, che ha sottolineato come questi risultati quantitativi siano stati raggiunti «senza concessioni alle gestualità e alle approssimazioni dell’eventismo».
«La Biennale – ha aggiunto – è un luogo di ricerca che offre ai più un percorso nell’ignoto e in ciò si distingue nettamente dalle mostre che sembrano raccogliere pubblico per celebrare rituali di beatificazioni del noto, dalla beata donna con l’ermellino alle beatissime fanciulle con l’orecchino di perla, all’esposizione ai fedeli del santissimo e preziosissimo cuore di Koons».
Una chiara rivendicazione a chiusura della kermesse di ‘libertà’ dagli schemi, dalle convenzioni, dai conformismi troppo spesso oggi proposti e imposti nel mondo dell’arte (istituzioni comprese). Da qui una nuova direzione inaugurata da questa Biennale 2013 per dare vita ad una “mostra ricerca” in grado di offrire al pubblico una visione d’insieme dell’arte contemporanea e del passato in una sorta di visione metastorica libera da pregiudizi e da giudizi collaudati.
«Il Palazzo Enciclopedico – ha commentato Gioni – è una mostra che ha voluto raccontare il desiderio impossibile di sapere e vedere tutto: una mostra che ha raccolto le avventure, le storie e i racconti di tanti personaggi che, spesso in solitudine, hanno cercato di creare una cifra, un’immagine del mondo, che ne catturasse la sua ricchezza. Molti come Marino Auriti, alla cui opera incompiuta e al cui desiderio di creare un luogo capace di raccogliere tutto lo scibile umano si è ispirato il titolo di questa edizione della Biennale, non sono riusciti a realizzare il loro sogni perché hanno lavorato in solitudine, ai margini».
Il Palazzo Enciclopedico ha voluto dunque offrire la visione per certi versi romantica, sicuramente atipica ed eccentrica, di artisti che hanno, il più delle volte senza esito, soli, fuori dai canali principali dell’arte, cercato di trovare risposte alla loro disperata ricerca estetica, filosofica e umana. Su queste visioni artistiche, marginalizzate spesso dalla storia, la Biennale ha voluto puntare i riflettori per porre al centro una riflessione più ampia sul concetto odierno di arte sia dal punto di vista della creazione che della fruizione.
«Se gli artisti fanno opere, ma è la società a riconoscerle come arte” si fa urgente in un mondo dominato dalla comunicazione istantanea e dalla ipertrofizzazione dell’immagine offrire visioni alternative che sfuggano al dominio dei cliché d’autore e alle codificazioni facili della critica usa e getta. Il vero merito del “totem” enciclopedico di Gioni è quello di aver voluto bypassare la classica distinzione fra artisti professionisti e artisti dilettanti e di aver utilizzato come criterio di scelta la forza evocativa intrinseca all’opera d’arte, superando una volta tanto le consuete logiche di giudizio e di selezione, o troppo giovanilistiche o iperconservative, offrendo invece un piano di proposta capace di comprenderle entrambe in funzione del contenuto, della passione creativa, dell’autenticità della visione artistica.
Una scelta di fondo che sembra sia stata gradita dal pubblico e recepita positivamente dalla critica che ha promosso a pieni voti questa Biennale nonostante qualche perplessità di fondo, giudicandola alternativamente perfetta, perfettina, furba, poco coraggiosa, sognatrice, didascalica, assolutamente non criticabile, finalmente aperta a cose nuove.
Giudizi in gran parte positivi che raccolgono tuttavia sfumature a volte volutamente acide per giustificare quel tanto di tagliente che si addice sempre a un buon critico, specie quando non è lui a firmare un evento di tale livello. Tuttavia il gotha della critica d’arte sembra aver soprattutto promosso il giovane Massimiliano Gioni, a cominciare da Achille Bonito Oliva e da Francesco Bonami, per il quale questa Biennale è perfetta, più vitale all’Arsenale dove gli artisti sono più liberi, mentre volutamente scolastica nell’esposizione ai Giardini. Germano Celant ne parla positivamente, pur mettendo le mani avanti sulle differenze generazionali.
Per Vittorio Sgarbi, dopo il suo exploit nella precedente edizione come curatore del padiglione Italia, la Biennale di quest’anno è ben fatta, incriticabile, sobria, di grande gusto, «è - dice - come andare in un salotto di persone ordinate e per bene». Piace invece senza riserve a Maurizio Cattelan, Hans-Ulrich Obrist, e persino a Bice Curiger, curatrice della scorsa edizione.
Un po’ più critica invece la posizione degli esperti d’arte outsider, che imputano a Gioni di non aver avuto il coraggio di andare sino in fondo sia nella eccentricità delle proposte che nel distacco dai soliti circuiti. In sostanza di avere dato vita a una Biennale coraggiosa e portavoce delle “solitudini dei numeri primi” soltanto per quanto riguarda gli artisti del passato, trascurando invece in gran parte le solitudini e le sperimentazioni eccentriche degli artisti contemporanei. I riflettori del museo dell’impossibile di Gioni sarebbero per quanto riguarda l’arte di oggi più conformisti con proposte che riflettono per gli emergenti offerte per lo più organiche al mercato.
Comunque sia questa Biennale 2013 resterà nella storia - secondo il presidente Baratta - come una delle più significative per aver aperto un percorso di ricerca nuovo, che «più che portarci un elenco di artisti contemporanei, ha voluto riflettere sulle loro spinte creative cercando di comprendere quale sia effettivamente il mondo dell’arte».
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