La beffa infinita dei documenti degli esuli
TRIESTE Nascere nelle terre dell'Adriatico orientale ai tempi della sovranità italiana, lasciare il proprio Paese d'origine per le conseguenze della guerra, trasferirsi in Italia come profughi e ritrovare sul proprio documento d'identità una dicitura errata quanto irridente: «Nato in Jugoslavia». È quanto per anni è successo agli esuli istriani, fiumani e dalmati, costretti a patire il danno della storia e la beffa della burocrazia, incapace di riconoscere sui documenti rilasciati dalla pubblica amministrazione il fatto che la persona fosse nata in terre che erano state italiane. La questione si è trascinata per decenni e solo nel 1989 una legge statale ha previsto che tutti i certificati e i documenti emessi a favore di cittadini italiani nati nelle zone oggi passate a Slovenia e Croazia indichino come luogo di nascita il solo nome italiano del comune d'origine, senza riferimenti allo Stato di attuale appartenenza.
A 27 anni da quella norma, le cose non sono risolte: sia in Consiglio regionale che in parlamento sono state allora depositate interrogazioni in cui esponenti del Pd - la consigliera regionale Silvana Cremaschi, la senatrice Laura Fasiolo, le deputate Laura Garavini e Simona Malpezzi - rilevano le mai cessate segnalazioni da parte di chi si vede rilasciare certificazioni non conformi a quanto previsto dalla legge, non sempre applicata da parte di Comuni e altri soggetti pubblici e privati. Come spiega il capogruppo dem, Ettore Rosato, «nonostante le circolari ministeriali inviate negli anni scorsi, le amministrazioni non sono ancora riuscite ad adeguare i sistemi informatici. Il governo ha presente la situazione e l'interrogazione può essere un atto utile per arrivare a una soluzione positiva».
Ancora oggi non sono pochi, infatti, gli esuli che sulla carta d'identità, sulla tessera sanitaria, sulla patente, sulla documentazione dell'Inps e su altri atti a loro intestati, si ritrovano non il nome italiano del comune di nascita, ma l'indicazione degli Stati sorti dopo il crollo della Jugoslavia. Il luogo di nascita non solo non viene “storicizzato” come previsto, ma è omesso del tutto e sostituito col riferimento a uno Stato estero, peraltro nemmeno esistente al momento della venuta al mondo dell'interessato.
Non sono servite le circolari ministeriali che, nel 2001, 2005, 2007 e 2012, continuavano a sollevare la necessità di sanare la questione. Problemi di natura burocratica e informatica impediscono di utilizzare gli elenchi dei comuni dei territori passati alla Jugoslavia per effetto del Trattato di pace e di quelli appartenenti alla Zona B ceduta formalmente dopo il Trattato di Osimo: liste inviate ormai dieci anni fa a Prefetture, sedi distaccate dei ministeri, Agenzia delle entrate, Inail, Inps, Poste, Province e Comuni.
In Consiglio regionale, Cremaschi domanda così «quali azioni intenda intraprendere l'amministrazione regionale per sensibilizzare non solo le anagrafi dei Comuni della nostra regione, ma anche le Ferrovie dello Stato, l'Inail, l'Inps, gli uffici della Motorizzazione civile e le Aziende sanitarie ad applicare quanto previsto della legge del 1989». La Regione non è però competente in materia e bisognerà attendere la risposta del governo. Il presidente dell'Unione degli istriani, Massimiliano Lacota, ricorda che «la legge è spesso applicata in modo corretto, ma a volte ci sono errori macroscopici: penso al caso di una persona che, proprio per la confusione sul luogo di nascita, ha scoperto di avere due diversi codici fiscali e se n'è ritrovati quattro dopo aver cercato di sanare la questione. E ricordo ancora l'intrico in cui è finita una signora che a causa di documenti disomogenei non riesce a intestarsi la casa che ha comprato. Speriamo si faccia finalmente qualcosa per arrivare a una conclusione, istituendo un ufficio che segua le singole pratiche. La legge del 1989 è nata come un aborto politico: stabiliva che l'esule avrebbe potuto richiedere a voce all'ente pubblico di correggere il luogo di nascita, ma chi lo faceva si sentiva dire che non c'era nulla da fare».
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