l caso dei film scomparsi

“Sperduti nel buio”, “La moglie del poliziotto”, “Pulce non c’è” sono solo alcuni dei film che per varie ragioni non vengono distribuiti e spariscono

di CALLISTO COSULICH

Ricorre il centenario del film “Sperduti nel buio” di Nino Martoglio, giornalista e regista catanese, che Umberto Barbaro, quando insegnava al Centro Sperimentale, vale a dire negli anni 30, aveva eletto a precursore di ogni pellicola italiana intenta a restituire una immagine realistica del nostro Paese. Un film che a partire dal dopoguerra nessuno fu in grado di vedere per il semplice fatto che l’unica copia esistente era scomparsa durante i mesi dell’occupazione tedesca e mai più ritrovata. Per la cronaca “sperduti nel buio” era tratto dall’omonimo atto unico del napoletano Roberto Bracco, la cui prima era stata tenuta il 14 novembre 1901 guarda caso al nostro Teatro Verdi ad opera della compagnia diretta da Virgilio Talli, Irma Gramatica e Oreste Calabresi.

Dunque una pellicola entrata nel mito, un mito che nemmeno il remake operato nel 1937 da Camillo Mastrocinque era riuscito a intaccare. Non a caso, quindi, negli anni 90, in una delle ricorrenti crisi del cinema italiano, vennero definite film “sperduti nel buio” le opere prime che, quantunque fossero state accolte favorevolmente dalla critica e talvolta persino dal pubblico, non garantivano al loro regista il proseguimento della carriera, talchè si rimpiangevano gli anni 50, quando durante una precedente crisi, Federico Fellini aveva potuto girare “I vitelloni”, la sua opera seconda, subito dopo la sventurata partenza con “Lo sceicco bianco”, che era stato rifiutato dal pubblico e - purtroppo - anche da alcuni critici supertogati.

I tempi sono cambiati, ogni crisi si presenta in veste nuova e con effetti nuovi anche nel campo cinematografico; ma il fenomeno dei film “sperduti nel buio” perdura, creando nuove vittime.

Stavolta però le vittime rischiano di passare inosservate fin dalla loro prima uscita. E poco importa se appaiono sugli schermi dopo avere mietuto premi e consensi in precedenti occasioni festivaliere e in particolari rassegne. È il caso di “Pulce non c’è”, opera prima di Giuseppe Bonito; opera prima premiata al Festival di Roma del 2012 (nel settore denominato “Alice nelle città”); detentrice di un “Ciak d’Oro” assegnato dall’omonimo mensile; finalista ai “Nastri d’Argento” del 2013, assegnati dal Sindacato Giornalisti Cinematografici, nella categoria “registi esordienti” (dove alla fine risultò vincitrice l’attrice Valeria Golino, debuttante dietro la cinepresa con il film “Miele”); vincitrice, sempre ai “Nastri”, per la migliore canzone originale (“Il silenzio” di Mokadelic e Niccolò Fabi); premiata infine alla rassegna “Bimbi Belli”, che Nanni Moretti tiene ogni estate nello spazio esterno della sua sala romana, il Nuovo Sacher.

Ebbene, proprio a Roma, dove il film ha avuto i maggiori riconoscimenti, “Pulce non c’è” ha dovuto fare una timida comparsa, sempre e solo al Nuovo Sacher, nel totale disinteresse dei quotidiani che si stampano nella Capitale, nè immagino che sia uscito a Torino, dove sono stati girati gli esterni, per non parlare del resto d’Italia.

Il film si apre sui primi piani di una donna in preda alle doglie di un parto difficile, che la fa soffrire oltre il dovuto, dopodichè passano gli anni e abbiamo il quadro di una famiglia sconvolta dalle conseguenze del parto, cui ci è stato dato di assistere: Margherita, la bambina che abbiamo visto nascere, soffre di sindrome autistica; la famiglia, cioè la madre, il padre e la sorella maggiore, le usa tutti i riguardi, ma deve fare i conti con gli obblighi che la situazione comporta e con una serie di malintesi che portano le autorità mediche e burocratiche a sollevare i peggiori sospetti sulla conduzione del caso, con le conseguenze che si possono immaginare.

Ciononostante Bonito evita con cura la trappola del film di denuncia, rivelando una grande maturità nel lasciar parlare i fatti e nel guidare gli attori, chiamati a vivere le azioni e le reazioni, anche le più segrete, dei singoli personaggi.

Va anche detto che il film è desunto da un romanzo; non è un pamphlet, bensì l’autobiografia della scrittrice Gaia Rayneri, che ha collaborato alla stesura del copione senza apparire nei titoli di testa. La Rayneri è identificabile nel ruolo di Giovanna, la sorella maggiore di Pulce (Pulce è il soprannome vezzeggiativo che i genitori hanno dato a Margherita), che non a caso finisce per essere la vera protagonista del film, interpretata dalla debuttante Francesca Di Benedetto, bravissima nell’esprimere le classiche turbe dell’adolescenza.

Pulce è invece impersonata da una bambina, Ludovica Falda, tanto ben guidata che lo spettatore ignaro potrebbe ritenere che si tratti di una bambina affetta effettivamente di sindrome autistica e di conseguenza sdegnarsi per l’uso improprio di un essere minorato a puri scopi spettacolari. C’è solo da sperare che Giuseppe Bonito, come tanti suoi colleghi, non sia costretto a disertare la sala e a sopravvivere, sprecando il suo talento nel realizzare per il piccolo schermo degli sceneggiati destinati all’oblio.

Il problema non riguarda solo il cinema italiano. Chi ha visto, per esempio, il tedesco “La moglie del poliziotto”, premio speciale della giuria all’ultima Mostra di Venezia, distribuito dalla Satine Film, una delle tante piccole società, animate dal culto del cinema migliore, ma che fanno fatica a trovare delle sale disposte a ospitare i film del loro listino? Eppure questo film in quanto a riuscita ha poco o nulla da invidiare a quelli di Mihael Haneke. Oltretutto tratta un tema molto attuale: il femminicidio o, meglio, la strada che conduce al femminicidio con quella moglie che vediamo coprirsi sempre più di lividi e il marito che sotto certi aspetti la ama. Una grande sorpresa, se si tiene presente che il regista è Philip Gröning, autore in precedenza dell’arido “Il Grande Silenzio”, ambientato tra i certosini del Delfinato.

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