Janša entra in carcere, “fan” in lacrime
TRIESTE. Abito grigio con il pin della bandiera della Slovenia all’ochiello, camicia bianca senza cravatta, così ieri qualche minuto dopo le 17 si è presentato al carcere di Dob (20 chilometri a Nordest di Lubiana) accolto da circa 500 fedelissimi. Teso, il volto tirato Janša ha dispensato qualche sorriso e ha stretto mani, poi l’ingresso in carcere.
Quel carcere la cui soglia già varcò il 30 maggio 1988 quando venne arrestato assieme ad altri giornalisti della rivista Mladina con l’accusa di aver pubblicato illegalmente documenti contenenti segreti militari. Il processo allora fu condotto senza rappresentanza legale per gli accusati e in serbo-croato invece che in sloveno. Janša fu condannato a 18 mesi di reclusione, inizialmente nella prigione di massima sicurezza di Dob, ma a seguito di forti pubbliche proteste (che segnarono l'inizio della cosiddetta Primavera slovena), fu trasferito nella prigione di Ig. Venne rilasciato dopo circa sei mesi dalla sentenza. Stavolta si ritrova a Dob per scontare la pena di due anni per corruzione nell’affare Patria, l’acquisto di autoblindo per l’Esercito della Slovenia.
Un giornalista che lo accompagnò in carcere nel 1988 assicura che allora c’era meno gente fuori dalla galera ad attenderlo. «Non c’è stato di diritto, ci governa la mafia», grida un uomo sulla cinquantina. Ci sono anziane donne con mazzi di garofani in mano ma assicurano che questo non è un funerale e che lui, Janša, risorgerà dalla polvere. Similitudini messianiche a parte, ieri attorno a Dob c’era la Slovenia rurale, quella cattolica e anti-comunista che da sempre costituisce il serbatoio di voti del Partito democratico (Sds) dell’ex premier. Che ieri pomeriggio è stato accompagnato in carcere dai tre vicepresidenti del partito: Milan Zver (neo-eurodeputato), Zvone ‹erna› e Alenka Jeraj.
C’è chi intona l’inno della Slovenia, chi si asciuga le lacrime e chi srotola un’enorme bandiera della terra del Tricorno e la fa sventolare sulle teste della folla degli ultrà di Janša. Su un manifesto si legge: «Luce in fondo al tunnel, Janša è il nostro Mandela», un giovane grida: «Libertà a Janša, libertà alla Slovenia». Sui cartelli pubblicitari lungo la strada che conduce a Dob sono stati attaccati manifesti che recitano: «Oggi Janša, domani tu», in sloveno e in inglese.
L’ultimo saluto da un palco ricavato nel cassone di un Tir. Dietro le porte del carcere Janša è accolto dal secondino di turno cui fornisce un documento di identità. Questi lo accompagna quindi nella cella di accoglimento dove può stare fino a 30 giorni. A Dob non ci sono divise per i carcerati e già da tempo non vengono tolti loro i lacci delle scarpe e la cintura. Janša, nella fase di accoglimento, non potrà guardare la televisione, non avrà con se il cellulare nè il computer. L’amministrazione del carcere decide, dopo un colloquio con il detenuto, in quale braccio della casa circondariale sarà rinchiuso. In Slovenia esistono tre regimi di carcerazione: regime chiuso, parzialmente aperto e aperto.
Nel regime chiuso i carcerati non hanno né telefonino, né computer, né tv che possono guardare solo nelle stanze comuni. Possono telefonare solo dal telefono comune e a un numero telefonico precedentemente autorizzato. Cellulare e pc sono off-limits anche nel regime parzialmente aperto, sono “privilegi” solo per chi gode del regime aperto.
Janša entro una settimana godrà molto probabilmente del regime parzialmente aperto. Soggiornerà in un complesso detto Slovenska vas, vicino al carcere vero e proprio e che non è circondato da mura o recinzione alcuna. I detenuti devono però rimanere lì, se si allontanano per loro c’è il regime chiuso. Per poter passeggiare nelle vicinanze i carcerati devono chiedere il permesso e qui possono anche ricevere visite. Ieri si è chiuso un capitolo della giovane storia della Slovenia indipendente. In carcere è finito uno che questa Slovenia l’ha costruita. Per Janša un vero e proprio “Addio alle armi” di hemingweyana memoria.
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