Italo Svevo per paura del fascismo voleva cambiare la “Vita”
«Per UNA VITA, cambiamo il NITTI?». Lo chiedeva così, con le maiuscole a sottolineare una malcelata preoccupazione, Giuseppe Morreale. Una ventina di giorni prima, Italo Svevo era morto a Motta di Livenza dopo uno stupido incidente automobilistico. E l’editore, scrivendo una lettera alla vedova Livia Veneziani datata 6 ottobre 1928, si preoccupava che il nome del protagonista del romanzo, Alfonso Nitti, potesse incorrere nelle ire dei censori fascisti. Qualche camicia nera poteva scambiarlo per un omaggio a Francesco Saverio Nitti, economista e politico assai inviso al regime, che lo fece andare in esilio.
La risposta, secca, arrivò a stretto giro di posta. Firmata da Antonio Fonda Savio, il marito della figlia di Svevo, Letizia, che sarebbe stato in seguito uno dei protagonisti della resistenza triestina al fascismo. E figura di spicco del Cln. Nessuna maiuscola per sottolineare il testo, solo otto parole. Secche, decise, precise. «A me sembra non occorra cambiare il Nitti».
Così, il primo romanzo sveviano venne ripubblicato in una versione corretta, ma senza toccare il nome del protagonista. Versione che, comunque, non è stata presa in considerazione come testo base per il volume che inserisce “Una vita” all’interno dell’Edizione nazionale dell’opera omnia sveviana. Un tomo di 379 pagine, pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma, curato da Simone Ticciati e passato al vaglio del Comitato scientifico (di cui fanno parte, tra gli altri Giuseppe A. Camerino in qualità di presidente, il docente universitario Elvio Guagnini e Riccardo Cepach, studioso sveviano e curatore del Museo dedicato allo scrittore). Ed è, tra l’altro, un piccolo evento l’uscita di questo libro (che fa seguito ai due volumi delle “Commedie” e alla “Coscienza di Zeno”). In un momento economico così difficile per l’Italia, e per le cose culturali in particolare, la pubblicazione del corpus sveviano non si ferma.
Con “Una vita”, Italo Svevo aveva un rapporto controverso. Lui, quel romanzo d’esordio, avrebbe voluto intitolarlo “L’inetto”. Perché era convinto che Alfonso Nitti fosse solo il cugino più vecchio di Emilio Brentani, protagonista di “Senilità”, e del Zeno Cosini che avrebbe conquistato i lettori d’Europa, e del mondo intero, mettendo a nudo la sua “Coscienza”. Ma l’editore Treves alzò un muro di rifiuto contro quell’idea. Così, poi, lo scrittore triestino dovette anche difendersi da chi lo accusava di aver voluto scimmiottare Guy de Maupassant. Come scriveva a Valery Larbaud, il poeta, romanziere e traduttore francese che ammirava molto l’opera sveviana: «”Una vita” è stata pubblicata quando conoscevo tutto Maupassant meno “Une vie” di cui non sapevo l’esistenza».
E c’è da credergli. Visto che Ettore Schmitz, anche quando ormai i più importanti intellettuali d’Europa si rivolgevano a lui con grande deferenza e ammirazione, non aveva problemi a raccontare le cose come stavano. Senza abbellirle, senza ricamarci sopra. Tanto per dire, nella prefazione alla seconda edizione di “Senilità”, uscita nel 1927 da Morreale, lo scrittore attirava l’attenzione sul fatto . che il romanzo era passato praticamente sotto silenzio sia quand’era uscito in prima edizione, nel 1898 in appendice al giornale “L’Indipendente”, sia pochi mesi più tardi quando la Libreria Ettore Vram lo aveva riproposto in volume.
«Questo romanzo - spiegava Svevo con grande franchezza - non ottenne una sola parola di lode o di biasimo dalla nostra critica. Forse contribuì al suo insuccesso la veste alquanto dimessa in cui si presentò. Altrimenti sarebbe difficile da spiegare tanto silenzio dopoché il romanzo “Una vita” da me pubblicato sei anni prima, e ch’era certamente inquinato da almeno altrettanti difetti, s’era saputo conquistare l’attenzione di parecchi critici, tra i quali Domenico Oliva che la espresse con parole abbastanza lusinghiere».
L’articolo di Oliva era uscito sul “Corriere della Sera” l’11 dicembre del 1892. E anche se il critico non risparmiava una serie di staffilate all’autore di “Una vita” («sebbene scarso d’interesse, sebbene d’un valore tecnico assai limitato»), non poteva non riconoscere che questo romanzo rivela una coscienza artistica ed un osservatore dall’occhio limpido». E concludeva, ricordando ancora «tutte le sue mende», che a scriverlo non è stato «il primo venuto».
Parole che facevano eco a quelle scritte da Svevo stesso. Sulla dedica per Livia Veneziana, datata 20 gennaio 1896, definiva “Una vita” come afflitto da «brutta legatura e brutto libro». E si consolava aggiungendo: «Ma nondimeno, per una sposa, un dono insolito. Perciò è soltanto perciò son lieto d’aver sofferto tanto per fare e pubblicare questa roba». Due mesi prima, il 23 novembre del 1895, a Silvio Benco confessava: «Sui miei lavori troneggia una nebbia per cui a pochi passi di distanza i più non vedono niente». Per concludere: «Mi costringo a lavorare lentamente sempre, ma il prodotto conserva sempre l’aspetto dell’improvvisazione».
Era difficile credere in se stessi, nei romanzi che andava scrivendo. Anche perché, allora, a tutti sembrava che Svevo fosse un povero illuso. Che le sue storie sarebbero finite presto nell’angolino delle cose dimenticate. Lo scrittore sapeva bene che all’ombra dell’inetto Alfonso, giovane colto e disagiato che finisce a lavorare per la banca Maller, e a intrattenere un’ambigua amicizia con la figlia del proprietario, Annetta, c’era lui stesso. E che in quel romanzo di debutto, chiuso dal suicidio del protagonista, era radicato lo sguardo ironico e disincantato, lucidamente pessimista dell’autore. Però, davanti alle critiche di Oliva, reiterate anni dopo da altri come Leo Ferrero, non poteva che concludere: «Talvolta mi pare mi sentire che la chiusa di quel romanzo non abbia maggior calore della conclusione di un sillogismo».
Ci sarebbero voluti fior di scrittori e di critici, da James Joyce a Bobi Bazlen, da Valery Larbaud e Benjamin Cremieux a Eugenio Montale, per convincere Svevo che non era un povero scribacchino di provincia. Ma una delle voci più forti del ’900 europeo. Chissà, se quegli incoraggiamenti fossero arrivati prima. E se non fosse morto proprio quando i sacri cancelli della letteratura si stavano spalancando per lui. Forse, del suo quarto romanzo, “Il vecchione”, non sarebbero rimaste solo una manciata di pagine. Anche perché lui, quel libro, lo andava scrivendo con gusto. «Mi diverto un mondo», confessava a Cremieux. Quattro mesi dopo la Morte se lo sarebbe portato via.
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