Italcementi “tedesca”, attesa e preoccupazione per il sito triestino

Lo stabilimento ha già subìto due anni fa un pesante ridimensionamento e lavora con solo 22 addetti
L'ingresso allo stabilimento triestino Italcementi in via Caboto (Bruni)
L'ingresso allo stabilimento triestino Italcementi in via Caboto (Bruni)

TRIESTE. Adesso sono rimasti in 22. Come i convocati della Nazionale. Eppure lo stabilimento Italcementi non è sempre stato così disabitato e appartiene alla migliore storia industriale triestina: il progetto originario risale al 1938, poi, dopo la pausa bellica, ecco il ritorno all’investimento con la prima pietra posata all’inizio di via Caboto. A seguire nel luglio 1954, giusti 61 anni fa, l’accensione del primo forno: c’era ancora il Governo militare alleato. Nel 1959 decolla la banchina in “autonomia funzionale”, che alla fine degli anni ’60 arriva a movimentare fino a 150 navi, quasi una unità ogni due giorni.

Ancora a metà del primo decennio 2000 la fabbrica cementiera occupa ben oltre i cento addetti. Poi comincia lo smottamento, che tra il 2012 e il 2013 diventa una slavina: l’Italcementi triestina crolla da quasi ottanta dipendenti agli attuali 22. Il piano preparato dal quartier generale bergamasco salva, comunque, il sito produttivo di Trieste, insieme a quelli di Monselice nel padovano e di Broni nell’Oltrepo pavese: per altri cementifici, invece, risuona il “de profundis”. Il ridimensionamento passa attraverso 47 esuberi, gestiti con pensionamenti e mobilità.

Trieste, Italcementi ai tedeschi di Heidelberg
Lo stabilimento triestino di Italcementi

Dal punto di vista industriale Trieste viene di fatto svuotata: dismessa la cava di San Giuseppe, dismessa la teleferica con i carrelli che ormai era diventata una costante paesaggistica della periferia meridionale. La banchina sul canale navigabile non ormeggia da tempi immemorabili. Il forno è spento dal 2013. Resta una modesta attività di macinazione, svolta con materiali che affluiscono dalla bresciana Rezzato e dalla slovena Anicova nell’alta valle dell’Isonzo. Tutto arriva e parte via camion. «Trieste - ricorda Alessandro Senica, esponente della Uil - ha sempre lavorato per il mercato estero, negli ultimi anni soprattutto con Slovenia e Croazia». Ma la crisi dell’edilizia si è fatta sentire anche oltre i confini nazionali e di cemento ce ne è stato sempre meno bisogno.

Sulle prospettive, legate alla cessione di Italcementi alla tedesca HeidelbergCement, le reazioni sindacali ondeggiano tra rassegnazione, preoccupazione, attesa. «Sotto un organico di 22 dipendenti - commenta con un filo di amara ironia Marco Dessanti (Uil) - è difficile scendere». «Accelerazione imprevista - dice Umberto Brusciano, segretario generale cislino - c’è il rischio di una ulteriore desertificazione dei comparti produttivi legati all’edilizia. Del resto non si può dire che le politiche per la casa aiutino il settore». Adriano Sincovich, leader della Cgil triestina, preferisce attendere l’evolversi del passaggio tra la famiglia Pesenti e la nuova proprietà tedesca: «Certo, pende un grande punto interrogativo sul domani dello stabilimento triestino e la depressione del settore edilizio non è di buon auspicio. Punto di forza può essere la posizione, dal punto di vista logistico».

Vuole affrancarsi da una visione pessimistica il presidente di Confindustria Venezia Giulia, Sergio Razeto: «Per quanto riguarda lo stabilimento di Trieste l’auspicio è che la nuova società possa valorizzare l’impianto esistente. Inoltre il fatto che un gruppo tedesco faccia un’operazione di tale portata in Italia è un segnale importante di come il nostro Paese possa essere attrattivo per gli investitori stranieri».

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