Italcementi, forno smantellato: 44 a casa

Firmato l’accordo: l’organico prevede 21 dipendenti direttore compreso, si fa solo macinazione e distribuzione
Di Silvio Maranzana
Lasorte Trieste - Italcementi
Lasorte Trieste - Italcementi

Trieste perde un’altra delle sue pochissime fabbriche di produzione industriale. Con l’accordo nazionale siglato dalle organizzazioni sindacali giovedì scorso, lo stabilimento triestino dell’Italcementi rinuncia a tutta l’area produttiva e viene sostanzialmente ridimensionato a centro di distribuzione, pur mantenendo anche un minimo di attività di macinazione. I suoi attuali 65 dipendenti, già recentemente ridotti a questo numero in virtù di una serie di esodi, diverranno 21 direttore compreso, con un organico dunque drasticamente tagliato di oltre due terzi. Attualmente in azienda una trentina di persone lavorano e le altre 35 sono in cassa integrazione straordinaria che è stata applicata a rotazione.

«Dal primo febbraio però - annuncia tristemente Marco Savi rsu di Filca-Cisl - la rotazione non ci sarà più. Resteranno a lavorare soltanto i 21 dipendenti previsti dall’organico futuro e i 44 in esubero entreranno definitivamente in cassa che già a fine anno potrebbe trasformarsi in mobilità». A breve nei capannoni di via Caboto verranno smantellati il forno da cottura e tutta l’area a caldo, sarà rimossa la teleferica che attraversa anche via Flavia e che sebbene brutta era un tratto visibile e caratteristico della produzione industriale della provincia, mentre decisioni dovranno essere prese sia per quanto riguarda la cava di cemento di San Giovanni della Chiusa, che la banchina in concessione dall’Autorità portuale lungo il canale navigabile di Zaule che già da qualche mese sono entrambe inoperose. Per festeggiare i 60 anni di attività a Trieste, visto che la produzione di cemento era incominciata nel 1954, probabilmente non poteva esserci modo peggiore.

La parabola discendente che sembra chiudersi ora per Italcementi ricorda quella tracciata soltanto poco più di un anno fa dalla Sertubi di via von Bruck dove gli indiani della Jindall che hanno preso in affitto l’azienda hanno chiuso l’area a caldo a propria volta trasformando una fabbrica di tubi in un centro di distribuzione e hanno messo in cassa integrazione la maggior parte degli operai. Nemmeno quel forno è in funzione, ma non è stato spostato di là. «Le avvisaglie dei tentativi di smantellarlo fortunatamente non hanno avuto seguito - riferisce Michele Pepe rsu di Fim-Cisl - e noi continuiamo a sperare che prima o poi sarà rimesso in funzione». «Il nostro forno è lungo oltre 45 metri e ha un diametro di tre - spiega Savi - con il ricavato del ferro che verrà venduto Italcementi si ripagherà i costi dello smantellamento». Per il sindacato ora si aprono altre tristi battaglie: tentare di ottenere “scivoli” verso il pensionamento per i dipendenti più anziani e alzare la cifra di 20mila euro lordi che è stata prospettata dalla società quale corrispettivo di buonuscita.

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