Irrefrenabile voglia di caffè? Tutta “colpa” del nostro Dna
TRIESTE. Bevi meno caffè della media? Non dipende solo dalla volontà o dall'ordine del medico. È scritto nei geni. In uno in particolare, il PDSS2, uno dei 20mila del codice umano. Concretamente, le persone che mostrano nel proprio Dna una variazione della sequenza nucleofisica, così la definiscono gli addetti ai lavori, hanno un minore desiderio della tazzina. Ne bevono una, forse due, non di più al giorno. La conferma dell'amore per il caffè con implicazioni genetiche arriva da uno studio condotto dal Burlo Garofolo, dall'Università di Trieste e da quella di Edimburgo, pubblicato due giorni fa sulla rivista Scientific Report. Uno studio effettuato per buona parte a Trieste, anche grazie alla collaborazione di carattere tecnico e operativo dell'azienda illy, che ha interessato in particolare sei paesini del Friuli Venezia Giulia: San Martino del Carso, Illegio, Sauris, Resia, Erto e Casso e Clauzetto.
Questione di metabolismo. Un gruppo di ricercatori coordinati dal professor Paolo Gasparini, responsabile della struttura complessa di genetica medica del Burlo, ha identificato il gene che risulta essere collegato al consumo di caffè, verificando che, in presenza di una variante di quel PDSS2, viene ridotta la capacità delle cellule a scomporre la caffeina, mantenendola più a lungo nel sangue. Con gli effetti attivi per più ore della sostanza che caratterizza la bevanda, si finisce con il ridurre in maniera sensibile (tra il 30 e il 50% per chi beve due-tre tazzine quotidianamente) il consumo. Lo studio, iniziato sette anni fa, segue il precedente lavoro dei ricercatori, che avevano identificato i geni coinvolti nell'abitudine di bere caffè e avevano studiato i meccanismi biologici del metabolismo della caffeina.
La prima fase della ricerca è stata realizzata in Italia, analizzando il codice genetico di oltre 3mila persone, di cui 1.200 sono poi state selezionate a partire dalle fasce d'età e sono entrate nel campione finale, concentrate per un quarto in Puglia, a Carlantino in provincia di Foggia, e per tre quarti nel terrritorio del Fvg.
La scelta, spiega Gasparini, «è dovuta al fatto che per questo tipo di indagini si rendono utili popolazioni con caratteristiche legate all'isolamento geografico o alle barriere linguistiche. Quelle di Carlantino e dei sei comuni individuati in regione hanno strutture simili e quindi alcuni tratti comuni».
Lo studio, si legge ancora nella rivista, è stato successivamente ripetuto utilizzando un gruppo di controllo composto da un campione di cittadini olandesi: i ricercatori hanno ottenuto lo stesso risultato, confermato la correlazione tra la variazione del gene PDSS2 con le abitudini di assunzione di caffè, rilevando tuttavia una diversa variabilità in numero di tazze assunte, che è dipesa dalla diversa concentrazione della caffeina nel caffè olandese rispetto a quello italiano. Il campione di Dna è stato raccolto attraverso un campione di sangue. A quel punto, fa sapere ancora Gasparini, «si è proceduto a un'analisi a tappeto dell'intero genoma, dato che, al di là di qualche ipotesi, non avevamo inizialmente un'idea precisa di che cosa andare a esaminare. Il PDSS2 è infine emerso come gene coinvolto».
Il caffè, prosegue il responsabile di genetica medica del Burlo, «è una delle bevande più consumate al mondo e una delle fonti primarie di assunzione di caffeina. Gli studi che stiamo effettuando sono collegati al ruolo del caffè nell'economia e per la salute delle persone: abbiamo iniziato a comprendere meccanismi chiave, ma molto c'è ancora da fare. Il nostro metodo ha permesso di evidenziare le correlazioni tra genetica e caffè, vi sono ulteriori elementi da approfondire».
Nel merito specifico della salute, «premesso che va evitato l'errato consumo, oltre le quattro-cinque tazzine, è difficile dire se scendere da due a una al giorno abbia effetti positivi o negativi». Le conclusioni della ricerca, tuttavia, «vanno sulla strada di quella che in futuro potrà essere la personalizzazione dell'alimentazione».
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