Irredentismo a Trieste, il mito vincente

Per la provocante “lezione” di Mario Isnenghi sui “Giorni di Trieste” lunghissima fila in attesa e teatro Verdi stracolmo
Di Gabriella Ziani
Lasorte Trieste 15/12/13 - Teatro Verdi, Lezione di Storia
Lasorte Trieste 15/12/13 - Teatro Verdi, Lezione di Storia

Neanche una fila per il pane poteva essere lunga come quella che si è creata ieri mattina in piazza Verdi e fino in via Einaudi e in piazza Tommaseo in attesa di entrare in teatro per un cibo di diversa natura, una lezione di storia, in palcoscenico Mario Isnenghi e l’”illusione” irredentistica per un’altra puntata dei “Giorni di Trieste”, ciclo organizzato dagli editori Laterza (col supporto del Piccolo, di AcegasAps e del Comune), finora una delle manifestazioni di più assoluto successo di pubblico: la gente si mette in fila con tre quarti d’ora di anticipo e anche più, riempie platea e palchi e perfino i posti “riservati”.

Dopo il “caso Oberdan” il tema di Isnenghi, già docente a Torino, Padova e Venezia, uno dei massimi storici dell’età contemporanea, della prima guerra mondiale e soprattutto delle mitologie e mitografie di cui la storia stessa si nutre incessantemente, era delicato e provocante: come poteva Trieste, con la prima guerra mondiale, voler “tornare” all’Italia se non ne aveva mai fatto parte? Il mito, la propaganda, le scelte di campo di alcuni contribuirono a creare una “narrazione” dei fatti che non aveva aderenze con la realtà, «era una realtà come quella che si vede a teatro - ha detto Isnenghi -, era più facile il concetto di “tornare” piuttosto che di “andare per la prima volta”, se ne accorse il socialista Angelo Vivante che in “Irredentismo adriatico” disse che l’irredentismo era nato in un’atmosfera di sogno e passione, tenuto ad arte lontano dalla realtà». Deluso e sopraffatto, Vivante si uccise, e l’idea irredentistica sopravvissuta dall’Ottocento in poi nei ranghi piccoli ma tenaci degli gruppi repubblicani attecchì in ambienti della Trieste austriaca disposti a mettere in atto un processo di identificazione, portandolo da individuale a collettivo, e trovando il modo di idealizzare nelle piazze la scelta invece tutta strategica e diplomatica del governo italiano: entrare nella guerra del ’15-’18 contro Francesco Giuseppe, tradendo l’alleanza con Germania e Austria.

«La nazione - ha sottolineato Isnenghi - non esiste di per sè, per farla serve anche il lavorìo dell’immaginario, serve la “volontà” di essere qualcosa». Da qui l’azione intensa di un Cesare Battisti che era un deputato socialista al governo di Vienna: «Trento-Trieste da “liberare”, si trattava piuttosto di una conquista». La controprova: «Di Bolzano nessuno parla mai, ma fu “presa” ugualmente, con un’azione militare». Le parole dunque restituiscono, ma anche costruiscono la realtà. Perfino l’”eroe” di guerra Scipio Slataper se ne era reso vagamente conto prima di partire comunque per il fronte, e morire, mentre il suo amico Giani Stuparich, il sopravvissuto, era andato a combattere con la camicia rossa garibaldina sotto la giacca grigioverde. «Di fatto - ha detto Isnenghi toccando molteplici storie, personaggi, contraddizioni - questi volontari che scappavano per combattere con l’Italia erano dei traditori. Anche se in buona fede». Ma lo storico ha tranquillizzato i triestini: «Non sto demitizzando il mito, non sono tanto screanzato». Però le cose vanno riconfigurate: «Gli italiani di Trieste? Erano i triestini che si sentivano italiani». Per il resto si sa che la città era abitata da sloveni, croati, greci, serbi, ebrei e altri per i quali la “nazione Italia” non aveva granché senso. Mentre la macchina sempre in moto della propaganda arrivò a descrivere i trentennali ex alleati di lingua tedesca «come “barbari unni” - ha citato lo storico -, era una pubblicità ormai da società di massa, ma più forte di questa era proprio il mito che affonda le radici nell’antico».

Il groviglio della grande complessità che stava sotto le parole d’ordine vincenti era fatto di ben altro, e fu proprio Stuparich nel suo romanzo “Ritorneranno” del 1941 a volerlo infine dire e Isnenghi perciò lo ha citato quasi suggerendo una rilettura. L’ideale di “nazione”, dice un personaggio, era della «borghesia nazionalista che ha voluto la guerra e ci ha mandato al macello, via le mani da Trieste, Trieste è del proletariato triestino». Quale identità, e verità, dunque? Nazione, o classe sociale? La Trieste di oggi ha molto applaudito.

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